I più affezionati fan di questa rubrica avranno notato che a redigerla non è solo una persona. Cambia lo stile, il campo d’interesse e spesso ci sono anche divergenze. Qualche settimana fa, il mio amico e socio ha espresso attraverso questo spazio indignazione per l’imminente approdo sugli schermi di tutto il mondo il sequel di quello che è considerato il capolavoro di Ridley Scott. Temeva uno scempio di quella storia che ha scritto pagine e pagine di storia del cinema. Io cercavo di farlo tornare in se, di rassicurarlo sul fatto che la storia sarebbe stata sicuramente all’altezza del capolavoro precedente. Oggi posso dire che avevo ragione.
Blade Runner 2049 è un film degno del suo predecessore. Non è un sequel prodotto per mungere la vacca fino alla fine. È un’opera nuova, diversa, che però mantiene uno stretto legame con quel film degli anni ottanta.
Sono passati trent’anni da quando Harrison Ford, nel ruolo di Deckard, membro dei Blade Runner, corpo speciale della polizia di LA, fugge da Los Angeles con la replicante Rachel. Il mondo in cui si svolge questa nuovo capitolo è cambiato. I replicanti non sono più prodotti dalla Tyrell corp, oramai fallita, ma da un’altra grande corporazione, capace di renderli totalmente ubbidienti. I vecchi replicanti sono ancora in giro però, e i Blade Runner ancora in azione. Tra questi c’è Ryan Gosling, nel ruolo dell’agente Kappa. Il resto della storia ve lo risparmio, così che possiate goderne anche voi.
I replicanti ribelli erano alla ricerca di un metodo per allungare la loro vita, programmata per durare solo quattro anni. La loro ricerca, anche violenta, era un chiaro riferimento alla vana aspirazione dell’uomo a vivere per sempre. Una vacuità di cui Roy, l’ultimo replicante con cui si scontra Deckard, si rende conto offrendoci una delle scene più poetiche del cinema di sempre: che senso ha inseguire una vita i cui momenti si perdono costantemente come “lacrime nella pioggia”? La vita e le azioni dei replicanti sono un modo per indagare quella che è la condizione umana. I replicanti non sono macchine, sono organismi, fatti da cellule, con un DNA. Hanno dei sentimenti. Amano, come Rachel ama Deckard. Ricordano momenti di vita non loro, impiantategli per renderli empatici e realistici. Ma il fatto che possano provare dei sentimenti non li rende veri? Non è una delle caratteristiche più umane l’empatia? Il fatto che siano stati creati in laboratorio basta per definirli come una proprietà di cui disporre a proprio piacimento? Queste sono tutte domande su cui si potrebbe discutere per ore ed ore senza mai giungere ad una conclusione. Sono quelle grandi questioni morali che solo il tempo potrà sciogliere.
Nel film di Denis Villenueve l’analisi dell’uomo continua a lavorare ad una profondità tale da rendere impossibile restare indifferenti al suo lavoro. Vengono indagati misteri millenari a cui il film non da risposte. Il film risveglia nello spettatore una riflessione anche interiore. Lo interroga sulla realtà dei sentimenti, sui limiti in cui essi si muovono e sviluppano, sul senso della vita. E qui si ha una grande differenza con il film di Ridley Scott. La morte troppo vicina assilla i replicanti ribelli del 2019. Questo assillo trent’anni dopo scompare. I replicanti obbediscono in tutto e per tutto ai loro padroni senza troppe esitazioni. Sono coscienti di essere diversi dagli uomini: i loro ricordi sono artificiali, non hanno storia, e sono un prodotto industriale. Questo differenzia i replicanti dagli uomini: questi ultimi non vengono creati ma generati, dando adito ad una differenziazione nei diritti e nelle possibilità che ha fondamenta religiose. L’uomo è “generato, non creato, dalla stessa sostanza del Padre”. I replicanti no, sono una merce che se difettosa può, anzi deve, essere ritirata. Se dovessero generarsi sarebbero al pari dell’uomo e la società costruita sul loro sfruttamento crollerebbe. Serve sicuramente un po’ di malizia, ma in questo discorso si coglie una critica sul come è nata la civiltà americana, e occidentale in genere, cioè sfruttando la manodopera schiavile la prima, e quella dei paesi più poveri la seconda. È quella critica al capitalismo selvaggio e disumano presente anche nel primo capitolo. Un mondo dominato dalle corporation è disumano, oscuro, senza speranza.
Il futuro distopico di Blade Runner prevede, oggi come allora, un avvenire cupo e sofferente. La speranza risiede nello spirito di umanità di tutti noi, senza distinzioni di sorta.
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