Il 2020 sarà ricordato, tra le varie cose che certamente segneranno questi 12 mesi, come l’anno della cancel culture. La cultura della cancellazione. Di cosa si tratta? La cancel culture è la tendenza di una comunità a cancellare, o meglio eliminare qualsivoglia tipo di attenzione per una persona, individualità, compagnia o società che ha avuto dei comportamenti non adatti. Ostracismo e umiliazione sotto gli occhi di tutti perché si è detto o si è fatto qualcosa che la maggior parte del mondo non è disposto ad accettare. In una sola parola: Internet.

Ed è proprio su Internet che questa cultura della cancellazione viene sfruttata al massimo, spesso e volentieri per giustificare delle avversioni contro temi che per alcune persone possono risultare scomodi ma che, in realtà, non lo sono per davvero. In soldoni, la cancel culture è un boicottaggio. Niente di più e niente di meno.

Lo sa bene Netflix, che negli ultimi anni ha dovuto affrontare più volte situazioni del genere. Basti pensare a quanto successo quando il colosso dello streaming ha cancellato serie amate dai fan, come Daredevil o Sense8. L’hashtag #CancelNetflix viene “evocato” ogni qual volta la piattaforma prende decisioni impopolari. Fioccano petizioni, minacce di disdette, insulti, complotti. In alcuni casi, la cosa cade nel vuoto, perché questa gente dopo un po’ si stanca; in altri, invece, si ottiene qualcosa, come per esempio il film conclusivo di Sense8, che per quanto sia un buon prodotto ha comunque il retrogusto di contentino ai fan.

Altro momento in cui Netflix ha passato un brutto quarto d’ora è stato ben due anni fa, quando in occasione del Pride di Milano, la divisione italiana della piattaforma ha deciso di prendere una posizione netta nei confronti della comunità LGBTQ+, ossia il supporto. I cartelloni pubblicitari con su scritto Rainbow Is The New Black hanno fatto scuola ma anche in quel frangente non tutti presero benissimo la scelta di Netflix e tornò in auge il #CancelNetflix e, di conseguenza, la cancel culture.

Sarebbe, però, scorretto e poco onesto non specificare che Netflix si è comunque trovata anche dall’altro lato di questa situazione. Quando Kevin Spacey, nel 2017, fu accusato di molestie sessuali, il colosso dello streaming decise di licenziare l’attore e di realizzare la sesta e ultima stagione di House of Cards senza Frank Underwood, facendolo morire off-screen. Anche in quel caso, gran parte del web si scagliò contro Netflix, e la piattaforma decise di mettersi al riparo “sacrificando” l’attore.

Tutto questo, adesso, si sta verificando di nuovo. Qualche giorno fa il tema della cancel culture è tornato prepotentemente di moda e Netflix è di nuovo alle prese con una situazione estremamente difficile da gestire. Almeno in apparenza.

Dal 9 settembre è disponibile sul catalogo della piattaforma Cuties, opera prima di Maïmouna Doucouré, regista franco-senegalese. La donna ha voluto raccontare una storia che ha fatto storcere il naso dei più. Ma si proceda in ordine.

Cuties è un racconto che, a quanto pare, ha una forte impronta autobiografica basata sulla vita dell’autrice. Amy è una bambina di 11 anni che vive in Francia e si trova tra due, se non tre, fuochi. Da un lato, la sua famiglia, in special modo le figure della madre e della zia, molto religiose e che pretendono dalla stessa Amy l’obbedienza a dei dettami che la bambina non condivide appieno e forse addirittura non comprende, vista la tenera età; dall’altro lato, il mondo fuori dalle quattro pareti di casa, estremamente diverso da ciò che viene insegnato ad Amy, ma soprattutto una società che costringe la gente a stare al passo coi tempi, anche se questo vuol dire fare scelte discutibili (guarda un po’, un’affinità con la cultura della cancellazione). A fare da contorno a questo binomio, l’adolescenza di Amy, fase che la ragazza vivrà sostanzialmente da sola per motivi di trama.

Qualche settimana fa, inizia il caos. C’è tanta curiosità attorno a Cuties, vista la vittoria del World Cinema Dramatic Directing Award al Sundance Film Festival (uno dei più importanti festival del cinema indipendente), ma il film finisce sotto i riflettori per i motivi sbagliati. Netflix rilascia, infatti, un poster internazionale che ha ben poco a che fare con il film: Amy e le altre protagoniste vengono ritratte in pose provocanti e giudicate (giustamente) non consone all’età non solo dei personaggi, ma anche delle attrici. Molti sono stati gli insulti e le minacce di morte ricevute dalla regista su Twitter nei giorni successivi alla pubblicazione del poster. La piattaforma si scusa, rilascia un nuovo poster e spiega: “Queste immagini non sono rappresentative del film”.

Ma al rilascio del titolo, il web e in particolare Twitter impazzisce. Cuties è definito disgustoso, fuori luogo, una celebrazione alla pedofilia. Si parla di ipersessualizzazione delle giovanissime protagoniste. Netflix subisce accuse molto pesanti: per una grossissima fetta di abbonati il servizio sta inneggiando alla pedofilia e vuol far passare un messaggio praticamente diabolico.

In pochi istanti, chiaramente, torna nei trend di Twitter l’hashtag #CancelNetflix. Si legge di boicottaggi, nuove disdette, petizioni per rimuovere il film dal catalogo, inviti ad annullare il proprio abbonamento. Essendo questa bolla scoppiata specialmente negli USA non è tardato l’intervento di QAnon, teoria del complotto che specula su una presunta cabala di pedofili che opera specialmente nel mondo del cinema e che vuole controllare il mondo.

La piattaforma Netflix, per ora, non ha dimostrato il minimo segno di cedimento davanti alle critiche. Il film è ancora presente sul catalogo e probabilmente è destinato a rimanere lì. Le critiche nel frattempo aumentano, ma contemporaneamente aumenta anche il peso di un dubbio, lecito: chi critica Cuties e attacca la piattaforma ha effettivamente visto il film?

Chi scrive lo ha fatto. Ed è difficile comprendere il motivo di buona parte delle critiche mosse al film. Cuties è una pellicola che sbatte in faccia la realtà odierna di un’adolescenza purtroppo troppo spesso fuori dal controllo degli adulti. I ragazzini dell’età di Amy sono in balìa di loro stessi, con in mano uno smartphone ed esempi sbagliati da seguire. Amy ha seguito la strada del ballo e, per dirla in soldoni (ma è molto più complesso di così), del twerk, ma il film va ben oltre le scene che stanno girando su Twitter e che, completamente decontestualizzate dal proprio contorno e tagliate ad hoc, possono risultare becere e completamente sbagliate.

Il consiglio è quello di vedere Cuties. Vederlo, però, con un occhio rilassato. Senza pregiudizi, senza il necessario bisogno di cercare qualcosa che, in fondo, potrebbe anche non esserci. La pellicola manda un segnale chiaro. Non piacevole, ma chiaro. Il finale del film, in tal senso, è la giusta (e sperata) conclusione del viaggio nell’adolescenza di Amy. Una conclusione che però ha anche il sapore di inizio.

E per quanto riguarda la cancel culture, questa non è la prima e non sarà l’ultima volta che il movimento #CancelNetflix tornerà in auge. Questa volta però i danni potrebbero essere più gravi del previsto, perché l’opinione pubblica si sta scagliando contro un film che invece ha un intento completamente diverso e opposto rispetto alle accuse di celebrazione della pedofilia.

Amy, durante il suo percorso di formazione, dimostra più volte di essere confusa. La speranza è che invece chi deciderà di guardare Cuties possa farlo con la giusta attenzione, cogliendo le sfumature ed il forte messaggio che Maïmouna Doucouré ha voluto trasmettere con questa sua opera prima.

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