Copia Originale di Marielle Heller – Le memorie di Lee Israel | Recensione

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Copia Originale

Copia Originale (“Can You Ever Forgive Me?” in originale), terzo film da regista per Marielle Heller, vede protagonista Melissa McCarthy nel ruolo di Leonore Carol “Lee” Israel, giornalista, scrittrice e biografa realmente esistita.

La Israel, che pure in vita si era distinta per le sue capacità letterarie, è ricordata e più tristemente nota per altre sue prodezze; infatti, è stata probabilmente una delle più prolifiche contraffattrici di documenti storici, corrispondenza e scritti inediti di autori illustri. Inutile dire che la trama del film si concentra proprio su questa fase della sua vita, cercando di presentare un personaggio chiuso, solitario, sostanzialmente sconfitto e depresso che tenta, tuttavia, incessantemente di ottenere un riconoscimento del suo talento.

Copia Originale è, sostanzialmente, un film amaro; al netto dei suoi momenti comici, che comunque strappano una risatina e non sfociano mai in vera ilarità, rimane una storia di sconfitta, depressione ed emarginazione. La Lee Israel che ci viene presentata, interpretata egregiamente da Melissa McCarthy, è una donna di mezza età che condivide un piccolo, sporco e trascurato appartamentino di Manhattan con la sua gatta; personaggio spiccatamente misantropo, conserva un rapporto definibile, a grandi linee, confidenziale solo con la sua agente Marjorie, che tuttavia non vuole saperne di aiutarla a far pubblicare i suoi progetti, ritenendoli di nessun interesse per il pubblico.

Costretta ad accettare lavori di fortuna per pagare l’affitto, Lee finisce comunque per farsi cacciare in brevissimo tempo da qualunque luogo di lavoro, colpevole il suo alcolismo oppure una rispostaccia di troppo; in questo momento di insuccesso e isolamento pressoché totali fa la sua comparsa Jack Hock (Richard E. Grant, interprete eccezionale), vagabondo, eccentrico e omosessuale, con cui Israel riesce a stabilire un rapporto di amicizia sincero, basato prevalentemente sulla condivisione delle reciproche disavventure davanti ad un bicchiere. Un giorno, mentre cerca documenti in un archivio pubblico per la sua biografia di Fanny Brice, Lee trova una lettera manoscritta dalla stessa, inedita e perfettamente conservata, e senza pensarci due volte, la ruba. Con i soldi che ricava dalla vendita della lettera riesce a pagare l’affitto e le cure per la sua vecchia gatta malata, ma è solo l’inizio di una lunga parabola discendente per Lee, che inizia a sfruttare la sua conoscenza delle vite di illustri autori e personaggi storici per creare, e vendere, manoscritti falsi.

Al di là degli ulteriori sviluppi della trama, che non è utile rivelare in questa recensione, la caratteristica principale che dona qualità e autorevolezza a questo film è la capacità di rivelare, o costruire, la psiche di un personaggio tanto ermetico come Lee. Non c’è mai il classico momento di “crollo nervoso”, tecnica spesso abusata per far dire al personaggio tutte quelle cose che non si è riusciti a trasmettere implicitamente durante lo svolgimento della narrazione; Lei rimane chiusa fino alla fine, ogni tentativo di aprirsi con persone che non siano Jack Hock fallisce miseramente ed anche con quest’ultimo la condivisione è sempre filtrata da un’ironia tragica di chi cerca di non prendersi troppo sul serio. Nonostante ciò, lo spettatore dotato di un minimo di sensibilità potrà cogliere e condividere in certa parte i sentimenti di rivalsa e vendetta di Lee nel vendere a quello stesso mondo che rifiuta il suo lavoro, e che di conseguenza rifiuta lei, dei falsi realizzati con così tanta maestria da essere pressoché impossibili da identificare. Non solo, ben presto inizia ad amare realmente quello che fa, alla rivalsa si aggiunge un positivo orgoglio per le sue capacità di falsificatrice, derivate dallo studio degli autori e dalla lunga pratica nelle tecniche di falsificazione.

Vedere quanto viene valutato il suo lavoro fa rinascere in Lee quella stima di se stessa perduta da tempo e, forse, mai davvero raggiunta prima; chiaramente, il perpetrarsi di questa attività non potrà che concludersi in modo negativo, con un’ulteriore nota amara causata dal fatto che la fine giunge anche a causa dell’unica persona in cui l’autrice riponeva fiducia.

In conclusione, Copia Originale è un film che a livello narrativo potremmo definire quasi impeccabile, i personaggi non risultano mai forzati in nessuna direzione e, di conseguenza, lo spettatore non fatica mai a seguirne i pensieri. I dialoghi sono ben scritti, pensati e mai sopra le righe, né nel momento drammatico né in quello comico; la sceneggiatura non contiene lungaggini e non presenta buchi o illogicità. Unica nota vagamente negativa può essere quella delle musiche, o meglio musichette, che in certi momenti sembrano voler richiamare un po’ Manhattan di Woody Allen, film di tutt’altro tono, creando un certo attrito con il clima generale del film.