Il Professore e il Pazzo – Il film di P. B. Shemran con Mel Gibson e Sean Penn | Recensione

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Il Professore e il Pazzo

Era il lontano 1999 quando Mel Gibson acquistava i diritti per portare sul grande schermo “Il Professore e il Pazzo”, omonimo romanzo di Simon Winchester. Tanti anni di gestazione non sono, nel mondo del cinema come in quello dell’arte, una garanzia della qualità finale di un’opera, tutt’altro; a memoria sono molti più i casi di progetti infiniti sfociati in prodotti mediocri piuttosto che il contrario.

Le motivazioni possono essere molteplici, in gran parte dipende dal motivo delle lungaggini,  continui cambi di sceneggiatori/registi, contrasti con la produzione o anche una proverbiale “crisi artistica”, che impedisce uno sviluppo soddisfacente della storia che si vuole raccontare. Non ci è dato sapere di preciso i motivi che han reso così lunga la produzione di questa pellicola, tuttavia si può dire, senza temere aspre smentite, che non si esime dal binomio “lunga produzione-prodotto mediocre”. Intendiamoci, “Il Professore e il Pazzo” non è un film canonicamente brutto, di quel Brutto con la B maiuscola, ma soffre di una serie di difetti, alcuni di stile, altri narrativi, che ne fanno un film obiettivamente mal riuscito, per quanto si percepisca esser stato molto amato dai suoi autori. Per cercare di spiegarci meglio, cominciamo da quello che è l’oggetto della trama: la redazione della prima edizione dell’Oxford English Dictionary.

Si trattò, in effetti, di un’impresa tumultuosa che richiese diversi decenni per essere portata a termine, al cui capo fu posto James Murray (Mel Gibson), all’epoca un semplice esperto di lingue e filologia, senza alcun titolo accademico. L’obiettivo finale non era la redazione di un semplice dizionario, ma di una vera e propria enciclopedia del lessico inglese, che sapesse racchiudere la totalità delle parole, antiche e nuove, con relativa definizione e ricostruzione storica del campo semantico. L’impresa si rivelò ben presto così proibitiva da costringere Murray a chiedere l’aiuto dell’intero popolo britannico, invitando la comunità ad inviare al suo gruppo di ricerca citazioni, contenenti volta per volta una singola parola, ritrovate nei testi che i singoli stavano leggendo.

In questo frangente si inserisce il personaggio di William Chester Minor (Sean Penn), di cui il film in realtà non ci racconta granché, ex militare americano, probabilmente medico, affetto da schizofrenia e tormentato dal senso di colpa nei confronti della vedova Eliza Merrett (Natalie Dormer), di cui ha ucciso il marito, scambiandolo per uno degli uomini che lo perseguitano nei suoi attacchi di paranoia. Questo crimine causò a Minor l’internamento in un manicomio criminale, dal quale iniziò la sua corrispondenza e collaborazione con James Murray, inviandogli più di 10.000 voci da aggiungere al suo dizionario.

La trama, delineata qui sommariamente, presenta già delle evidenti criticità; per riuscire a rendere godibile sul grande schermo questa storia, che diciamolo in tutta onestà, di accattivante sulla carta ha ben poco, ci sono due modi: avvalersi di sceneggiatori di altissima levatura, che riescano a dare il giusto ritmo e la giusta durata alla vicenda, oppure esagerare gli avvenimenti, in poche parole romanzare. Purtroppo è proprio quest’ultima eventualità a verificarsi. Quando la storia principale, dunque la vicenda del professor Murray, inizia a perdere di mordente, il focus della narrazione si sposta drasticamente sul Dottor Minor, mostrandoci le sue sofferenze, il rapporto di fiducia che instaura con le guardie del manicomio, il suo impegno per aiutare Murray e, in particolar modo, i suoi tentativi di ottenere il perdono dalla vedova Merrett.

Tutta questa zona narrativa, che teoricamente doveva essere una “side story”, finisce per diventare l’unica fonte di intrattenimento della pellicola; il tentativo di risollevare l’interesse dello spettatore tuttavia si risolve nella creazione di una storia inverosimile, palesemente priva di qualunque attinenza con la realtà di quelli che furono i fatti. Alcuni dialoghi di questa sezione non sono nemmeno scritti male, ma sono a tal punto ruffiani e artificiosi da creare fastidio, buttati lì nella speranza di riuscire a conferire spessore e pathos ad una storia che, così com’è, non ne possiede. L’artificiosità della sezione dedicata al Dottor Minor finisce per contaminare l’interezza del film, tutto sommato credibile prima, per quanto poco stimolante. In finale ci tocca assistere ad una carrellata di scene dal tono forzatamente solenne e politico, certamente evitabili, che segnano la fine di ogni credibilità per questa sfortunata opera.

In definitiva Il Professore e il Pazzo è un film artefatto, non si capisce bene cosa voglia comunicare, ma qualunque cosa sia di certo si discosta dalla vicenda principale e lascia la sensazione che la “morale” del film non sia in alcun modo ricavabile da quello che abbiamo visto, ma piuttosto qualcosa di forzatamente inserito in finale. I mezzi di questa forzatura sono principalmente frasi banalotte e situazioni inverosimili o, in alternativa, scontate. La regia del film ha un sapore di vecchio, stilisticamente è essenziale ma unita ai dialoghi e al montaggio conferisce al film un’impronta “home video anni ’90” che non contribuisce certo a migliorare il tutto. Nota a fondo pagina: il regista, di cui non abbiamo parlato finora, è P.B. Shemran, pseudonimo di Farad Safinia, di cui non sappiamo molto al di fuori del fatto che è uno storico collaboratore di Mel Gibson, dettaglio che fa sorgere il sospetto che, a conti fatti, il vero regista sia proprio quest’ultimo.