Springsteen on Broadway – Quando la musica si fa emozione | Recensione

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Springsteen on broadway
Io vengo da una città costiera dove tutto è dipinto con un po’ di falsità. E anch’io. Nel 1972, non ero un ribelle alla guida di un’auto da corsa, non ero un punk agli angoli delle strade, ero un chitarrista che suonava ad Asbury Park, ma avevo vari assi nella manica. Avevo la giovinezza, un decennio di esperienza alle spalle in una band da bar, avevo un fantastico gruppo di musicisti e amici che sapevano come suonavo, e avevo un trucco di magia. Sono qui stasera per dimostrare che siamo ancora vivi. Noi, così inafferrabili e mai del tutto credibili, soprattutto in questi giorni. Questo è il mio trucco di magia. E come tutti i bei trucchi, comincia con un’introduzione.

SpringsteenÈ con queste parole che Bruce Springsteen, sessantanove anni compiuti a settembre, cala il plettro sulle corde della chitarra acustica nel mezzo del palco illuminato ad arte del Walter Kerr Theatre di Broadway. Springsteen a Broadway? Qualche anno fa, se me lo avessero detto, non ci avrei mai creduto; ed invece eccolo lì: una delle icone del rock, del cantautorato e del sogno americano, tra le mura di un piccolo teatro, intimo e silenzioso, intento a suonare alcuni dei suoi più grandi successi, intervallandoli con monologhi dedicati alla storia della sua vita. Sono stati ben 236 gli spettacoli tenuti dal rocker statunitense a New York, a partire dall’ottobre 2017 fino a qualche giorno fa. Un progetto che aveva suscitato non poche perplessità tra gli appassionati: i biglietti per gli show, infatti, non avevano prezzi esattamente “nazionalpopolari”, il che appariva piuttosto contraddittorio per l’uomo che in quarantacinque anni di carriera ha difeso i diritti dei più deboli, con canzoni di forte denuncia sociale, da Factory a Johnny 99, dalla stessa celeberrima Born in the USA (ormai comunemente fraintesa per una banale canzonetta patriottica) fino all’ultimo vero album di originali, Wrecking Ball, che lanciava un ampio sguardo sulla crisi economica del 2008. Ma polemiche a parte (che poi si potrebbero risolvere in una semplice considerazione: è difficile far pagare poco biglietti per un teatro di appena novecento posti, che lo spettacolo sia un musical o il concerto di una rockstar), la scelta di Broadway in sé, probabilmente, non dovrebbe poi stupire i più appassionati della sua musica: Springsteen non è soltanto cieca e rumorosa furia rock’n’roll, già nel 1996 e nel 1997 aveva girato il mondo in teatri, nel tour del suo secondo album acustico, The Ghost of Tom Joad.  Ciò che stupisce di più, semmai, è la scelta di trarre, da questi concerti, un originale Netflix: Springsteen on Broadway, diretto da Thom Zimny e uscito sulla piattaforma il 16 dicembre 2018. È effettivamente da un po’ di anni che noi fan di Springsteen aspettiamo un DVD di un suo concerto per intero, dato che dopo London Calling nel 2009 non abbiamo avuto molte soddisfazioni su questo fronte. Ma, stupore a parte, cosa meglio di un originale Netflix poteva dare finalmente la possibilità di un biglietto in prima fila per vedere Bruce Springsteen a Broadway?

Springsteen che cala il plettro sulla chitarra, dicevamo. Lo fa con un arpeggio ritmato in Fa che ogni fan non potrà che riconoscere: Growin’ Up. Crescendo. La prima canzone che il film (anzi, lo show) ci propone. Ironico o forse voluto è l’effetto che provoca questo pezzo negli ascoltatori più affezionati: siamo in tanti ad essere cresciuti, con Springsteen. Non per forza anagraficamente: la sua musica, dal pezzo più ritmato e leggero, alla ballata più struggente, parla al cuore delle persone, giovani od anziane, tristi o felici, frustrate o soddisfatte. Bruce, come lo chiamiamo affettuosamente noi fan (a lui, il soprannome “Boss” non è mai piaciuto), sa parlare di noi, della nostra vita, di quei sentimenti oscuri che teniamo nascosti, di quelli meravigliosi che ci riempiono il petto, ma a cui non sappiamo dare un nome; parla delle disparità sociali, della voglia di rivalsa, dei reietti, di chi non ce l’ha fatta, di chi si è arreso, di chi ci crede. Suonano strane dunque quelle parole inziali… come può, Bruce Springsteen, essere “dipinto di falsità”, niente di più che il frutto di un mero trucco di magia? Mi viene in mente un discorso che tenne alla conferenza SXSW del 2012:

Non prendetevi troppo sul serio e prendetevi sul serio quanto la morte stessa. Non vi preoccupate… e preoccupatevi come matti. Abbiate una fiducia di ferro, ma dubitate: vi fa stare svegli e allerta. Credete di essere i più duri della città e… fate schifo. Vi rende onesti, questo essere capaci di mantenere costantemente due idee di vita tra loro completamente contraddittorie nel vostro cuore e nella vostra testa. Se non vi farà impazzire, vi renderà forti.

Bruce è l’uomo delle contraddizioni. Delle ambiguità. Quello che credi di conoscere e invece così non è. E forse proprio per questo l’impressione che ci dà, in ogni suo gesto, in ogni sua risata, in ogni pennata, è quella di avere di fronte una persona vera. Ancora più contraddittorio, si può pensare; no, invece: ognuno di noi è fatto da pro e contro, da pulsioni opposte. Ci spaventa, spesso. E penso spaventi anche Bruce… solo che il suo mestiere, quello che ha compiuto con dedizione dall’intro di chitarra di Blinded by the Light nel primo album, è stato mettere nero su bianco queste angosce, che sono nostre e che sono anche sue. Perché lui sarà anche un trucco, una finzione, ma, in fondo, lo siamo tutti quanti. E allora ci lasciamo trasportare dalle sue parole, dall’atmosfera che solo lui sa creare, con parole e silenzi, con il piano e la chitarra, con la voce grattata che è entrata nella storia. Nella luce soffusa del Walter Kerr Theatre, Springsteen ci racconta della sua infanzia: dell’albero su cui si arrampicava quando era bambino, del difficile rapporto con il padre, di quello meraviglioso con la madre. Ad ogni racconto segue una canzone (bella, bellissima in particolare The Wish, spesso dimenticata perché relegata al terzo disco di Tracks, raccolta di B-sides del 1998), che improvvisamente assume un nuovo significato, che non avevi mai afferrato, che non ti era mai apparso così chiaro; ed allora lo capisci: con quegli aneddoti, talvolta divertenti, talvolta toccanti, Bruce si sta mettendo a nudo davanti agli occhi delle novecento persone presenti, sera dopo sera. Adesso, anche di milioni di spettatori. La regia di Zimny, che ha già più volte collaborato con il nostro protagonista e lo conosce bene, non fa che accentuare questa sensazione travolgente di intimità, affidandosi a molti zoom, primissimi piani, particolari. Nella gestualità delle mani, a tratti più calcolata, in altri momenti più goffa, come se le emozioni lo travolgessero; nella voce, sempre modulata con la precisione calcolata di chi incanta folle di decine di migliaia di persone da decenni, ma che di tanto in tanto si rompe; negli occhi scuri, che più di una volta tradiscono la commozione, vediamo più che mai “Bruce” e sempre meno “Springsteen” o “il Boss”.

Ma soprattutto, vediamo noi stessi: cosa c’è di meglio di ascoltare inni come Thunder Road, Born to Run, The Rising, Land of Hope and Dreams e tante altre, suonate con maestria da uno che di concerti acustici se ne intende, coadiuvate alla narrazione sincera, genuina, di un uomo che, condividendo ciò che prova, ci ricorda che non bisogna avere paura delle nostre emozioni, neppure di quelle più oscure?

SpringsteenChi magari crede  questo film, questo viaggio nella sua vita altro non sia che un banale prolungamento della sua autobiografia, Born to Run, pubblicata nel 2016, sbaglia. Certo, molti degli aneddoti raccontati dal cantautore sono contenuti anche nel libro, ma il punto non è questo: il punto è che Bruce Springsteen è un oratore nato. Chiunque lo abbia mai visto dal vivo, lo sa bene; e se questa capacità risulta devastante durante i live con full band, in cui sarebbe capace di comandare con un mero schiocco di dita decine di migliaia di fan impazziti, anche in questo formato, essa non si nasconde affatto. Semplicemente, si trasforma, muta: se ai concerti negli stadi si ha l’impressione di essere stregati da un potente sciamano dai tratti italo-americani, qua, in Springsteen on Broadway invece la sensazione è quella di mettersi vis a vis con il nostro cantante preferito, che ci racconta chi è. Che vuole farci scoprire chi siamo.

Altri progetti cinematografici assimilabili a questo erano già stati tentati: si veda Springsteen & I, del 2013, diretto da Baillie Walsh e prodotto da Ridley Scott, film che raccoglieva le testimonianze di diversi appassionati selezionati dal web e che, così, tentava di spiegare quanto i fan di Bruce fossero speciali, legati al loro idolo in maniera profonda; il risultato era però grottesco, quasi imbarazzante, e somigliava più al copia-incolla di brutti video amatoriali che non un progetto ben pensato. Per assurdo, è questo concerto, questo Springsteen on Broadway di Netflix, a dimostrarci la profondità di questo rapporto, che è fatto di sguardi, parole, urla, rock.

Siamo davanti ad un connubio di intimismo, poesia e potenza musicale che difficilmente è mai stata raggiunta prima e certamente non con tanta genuinità. La chiave di volta di questo film gira tutto intorno a questo: nel suo essere accorato, apparentemente senza filtri. Lascia commossi, perché è vero. E allora, finalmente, lo capiamo: eccolo, il “trucco di magia”. Eccolo, trasportato direttamente dal palco di New York agli schermi di tutto il mondo. Eccola, quella sensazione potente di essere davvero vivi. Ecco cos’è Springsteen on Broadway!

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