Sono disponibili su Netflix gli episodi 3 e 4 di The Last Dance, la docuserie sui Chicago Bulls di Michael Jordan e sulla cavalcata che li ha portati a vincere il sesto ed ultimo titolo, il terzo consecutivo del secondo threepeat: questa seconda tranche di episodi si concentra su uno degli elementi fondamentali della squadra allenata da Phil Jackson, per certi versi quasi più importante di Jordan e Pippen, ovvero Dennis Keith “The Worm” Rodman, uno dei migliori specialisti di sempre nell’arte del rimbalzo, e sull’altrettanto importante membro del team, Phil Jackson, allenatore capace di guidare i Bulls alla vittoria di sei titoli NBA.

La struttura di questi due nuovi episodi rimane invariata rispetto ai precedenti: si passa in scioltezza dal 1997, anno della “Last Dance”, alla fine degli anni ’90, nei quali i Bulls di Jordan continuano ad evolversi in quella che diventerà la squadra che vincerà il suo primo titolo nel 1990/91 contro i Lakers di Magic Johnson; infine, si torna, come nel caso di Pippen e Jordan, ancora più indietro nel tempo, andando a scoprire infanzia, adolescenza ed elementi fondanti della carriera di Dennis Rodman.

The Last DanceA differenza di Jordan e Pippen, Rodman, conosciuto per le capigliature stravaganti, le provocazioni e tutte le stramberie di cui si è reso protagonista, non ha avuto un’infanzia o un’adolescenza normale: il giovane Dennis, infatti, da giovane si descrive come uno sfaticato, tanto che la madre lo butterà fuori di casa, favorendone l’approccio, avvenuto comunque per caso, con il basket.

Su Rodman si potrebbe dire davvero di tutto: dal tentato suicidio, alla relazione con Madonna, al matrimonio vestito da donna, alla recente amicizia con Kim Jong-un, ci sarebbe davvero da scrivere una sola serie dedicata al Verme. E non dimentichiamoci che è stato anche il giocatore che ha ispirato il protagonista del manga sul basket più famoso di sempre, Hanamichi Sakuragi, il Re dei Rimbalzi di Slam Dunk, il capolavoro di Takehiko Inoue!

Personaggio molto più complesso e sfaccettato di quanto lui stesso voglia far credere, Rodman vincerà due titoli NBA molto prima dei suoi due futuri compagni di squadra, in quei Detroit Pistons che lo stesso Jordan afferma, ancora oggi, di odiare (e d’altronde, chi segue le vicende di Jordan sa benissimo quanta poca stima ci sia tra Air e la stella di quella squadra, Isiah Thomas): in questi due episodi vengono raccontati diversi aneddoti che hanno fatto inasprire ulteriormente la rivalità tra i due team, e la narrazione passerà, esattamente come nei primi due episodi, in maniera decisamente fluida da un’epoca all’altra, con un lavoro di scrittura decisamente apprezzabile, che rende questa “The Last Dance” un piacevole ed interessante flusso di ricordi e testimonianze sia personali sportive di grandi personaggi del mondo del basket USA, da campioni come Earvin Magic Johnson a giornalisti come David Aldridge, oltre agli immancabili Jordan, Pippen, Jackson, Rodman, insieme a giocatori meno noti come Bill Wennington, Steve Kerr e John Paxson.

In mezzo a questo flusso di eventi e flashback, in queste puntate ci viene presentato coach Philip Douglas “Phil” Jackson, vero artefice della trasformazione dei Bulls dell’inarrestabile Michael in una squadra da titolo. Nell’episodio in cui Jackson la fa da padrone, ci viene presentata la sua vita, la sua carriera da giocatore, durante la quale ha vinto anche due titoli di campione NBA, gli unici vinti dai New York Knicks; e poi la gavetta come coach in campionati decisamente minori, il ruolo da assistente di Collins ai Bulls, l’improvvisa promozione ed il “matrimonio” spirituale e sportivo con Tex Winter. In tutto questo, ci viene mostrato anche come Jackson, decisamente un personaggio particolare, amante della cultura dei nativi americani e della filosofia zen, sia stato probabilmente l’unico a capire fino in fondo proprio Rodman.

The Last DanceLa scrittura, dicevamo, ed il ritmo, sono i due cardini ed i due principali pregi di questa serie, poiché l’effetto finale è quello di una serie di elementi sparsi nel tempo che, concatenandosi e generando rapporti causa-effetto, portano alla stagione raccontata in The Last Dance: dalle prime vittorie sotto la guida di Doug Collins, all’esordio di Phil Jackson e dell’attacco a triangolo voluto da Tex Winter, alle follie di Rodman, prima avversario e poi membro imprescindibile della squadra più forte del mondo, alle continue frecciate rivolte all’odiato Jerry Krause, tutto fila liscio, non facendoci rendere conto di aver assistito a quasi due ore di documentario, anzi. Aspettare ogni volta una settimana, abituati al binge-watching, è una piccola tortura.

The Last Dance non è tuttavia una serie perfetta, questo tocca dirlo: era lecito aspettarsi molta enfasi sui protagonisti, soprattutto su Sua Altezza Aerea Michael Jordan, ma quello che non ci si dovrebbe mai aspettare da una serie documentario è l’essere troppo di parte, e The Last Dance lo è, principalmente dalla parte di Jordan, Pippen, Rodman e Phil Jackson.

Non si tratta della prima volta che accuse del genere vengono mosse a Jordan, universalmente riconosciuto come il più grande cestista di sempre ed uno degli sportivi più importanti della storia, ma non altrettanto stimato come uomo: non saremo certo noi ad elencare gli angoli oscuri della sua leggenda, perché di leggenda si tratta, ma è abbastanza lampante che la serie abbia scelto come “villain” Jerry Krause, che tra l’altro, essendo morto, non può controbattere, tanto che, poco dopo l’uscita dei primi episodi, uno dei Bulls di quegli anni, Toni Kukoc, ha apertamente espresso perplessità sul trattamento ricevuto dal fu General Manager in questa docuserie.

In sostanza, se vogliamo trovare un difetto a queste prime quattro fantastiche puntate di The Last Dance, possiamo dire che c’è una punta di faziosità di tanto in tanto. E Jordan, da leggenda qual è, non ne avrebbe bisogno.

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