X-Men: Vitamorte di Chris Claremont e Barry Windsor-Smith | Recensione

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X-Men Vitamorte

Per quanto possa essere difficile da credere viste le “condizioni” in cui versa l’universo degli Uomni X, c’è stato un tempo in cui le testate mutanti rappresentavano il fiore all’occhiello della Marvel Comics. In particolare la storica Uncanny X-Men, la testata pioniere partorita dal duo Stan Lee e Jack Kirby, dalla metà degli anni’70 è riuscita a distinguersi dalle concorrenti, rinnovandosi e sperimentando. Grazie a Chris Claremont e a innumerevoli artisti come John Byrne, Alan Davis, Barry Windsor-Smith fino ai più “recenti” Marc Silvestri, Whilce Portacio, Jim Lee, Uncanny X-Men ha rappresentato per anni il meglio della letteratura serializzata a fumetti, amalgamando storie supereroistiche appassionanti a tematiche importanti come l’emarginazione, la xenofobia, la fede e moltissime altre tratteggiate con una profonda umanità e attenzione nei ritratti degli eroi in calzamaglia accomunati dal gene-X.

Tra le numerose X-storie dal forte impatto emotivo, X-Men: Vitamorte rappresenta uno degli esempi più lampanti della scrittura complessa e delicata di Chris Claremont. Illustrata da Barry Windsor-Smith e apparsa originariamente su Uncanny X-Men # 186 dell’Ottobre 1984 e Uncanny X-Men # 198 dell’Ottobre 1985, Vitamorte viene ora riproposta da Panini Comics nella collana Grandi Tesori Marvel in un formato oversized dove le tavole del disegnatore britannico trovano tutto lo spazio necessario per poter estasiare il lettore.

I due capitoli che formano la parabola di Vitamorte ritraggono Tempesta nel suo momento più buio: ferita da un prototipo di pistola in grado di neutralizzare le capacità derivanti dal gene-X, l’ex leader degli  X-Men viene privata dei suoi poteri. Emaciata e ridotta ad una mera ombra della dea africana capace di piegare la pioggia e i venti alla sua volontà, Ororo oltre alle sue abilità ha perso il proprio vigore e la propria tenacia, nonché la voglia di vivere. Rintanandosi in un guscio di apatia e autocommiserazione, la giovane mutante lascia si lascia accudire da Forge, mutante abile nel campo tecnologico. Durante la convalescenza grazie all’aiuto del mutante nativo americano, Tempesta cercherà di abituarsi e di accettare la sua nuova condizione fisica e scoprirà di avere molte cose in comune con Forge, portando i due giovani ad avvicinarsi l’uno all’altra.

Se il primo straziante capitolo è all’insegna della solitudine e disperazione il secondo, invece, rappresenta la speranza e la rinascita. Il fumetto si apre con Ororo, anche qui ferita e quasi allo stremo delle forze, errare senza meta nell desolate terre africane. Nel suo vagare, Tempesta si imbatte nei resti di un incidente automobilistico dove la giovane Shani, unica superstite, è in procinto di partorire. Toccherà all’ex leader degli X-Men salvare la futura madre e il bambino nel suo grembo,  riportando la giovane al suo villaggio affinché possa dare alla luce suo figlio.

Come dimostrato in Dio Ama, L’Uomo Uccide, Lupo Ferito e molte altre storie della sua imprescindibile gestione dell’universo degli X-Men, in Vitamorte Chris Claremont da un’ulteriore prova della sua abilità nel descrivere personaggi tanto umani e complessi da avere vita propria. Rompendo i semplici limiti della carta stampata, il ritratto di Tempesta è uno dei più introspettivi e concreti descritti da X-Chris: la drammatica situazione di Ororo, straziata dalla bestia dell’autocommiserazione, è illustrata con l’inconfondibile eleganza di tipica di Claremont dove la rabbia, il dolore e le insicurezze della giovane mutante sono rappresentate con crudo realismo, senza sfociare in un banale senso di pietà o compassione. Trattato con lo stesso garbo e delicatezza, il viaggio che permetterà a Tempesta di rinascere si erge su elementi prestati dall’esistenzialismo e dall’autocoscienza, di cui è ricca la letteratura. Tramutandosi in un viaggio alla scoperta del proprio io, Claremont lascerà un segno indelebile nella memoria dei lettori, testimoni della morte e successiva resurrezione della dea africana.

Oltre ad essere una storia toccante in grado di emozionare il lettore lasciandogli un ricordo indelebile, Vitamorte rappresenta anche uno degli migliori esempi dell’evoluzione stilistica di Barry Windosor-Smith. Nel primo capitolo infatti, il tratto del disegnatore britannico, pur mantenendo una scintilla di originalità, appare più rigido e classico, ancora legato ad una sorta di “canone classico” tracciato da artisti come Cockrum e Byrne, comunque in grado di mostrare qualche sporadico virtuosismo. In Vitamorte II, pubblicata ad un anno circa di distanza, lo stile di Winsor-Smith cambia radicalmente, maturando in un tratto più personale. Dal taglio più autoriale, le tavole di Windsor-Smith sono un vero spettacolo. Le figure, più snelle e sinuose rispetto al capitolo precedente, traboccano di un’energia grezza, quasi primordiale, trovando compimento nei forti colori accesi e d’impatto. Vi è anche una maturazione dello storytelling, più rapido e immersivo, capace di esprimere al meglio l’estro dell’artista che qui, muovendo i “primi passi”, getterà le basi per la consacrazione definitiva con il suo seminale capolavoro Arma X.

Il fumetto di Claremont e Windsor-Smith, come i migliori romanzi di formazione, è un’opera di transizione, di accettazione ma soprattutto di crescita. Nel mostrare quanto sia mutevole la vita, Claremont trasporta la sua protagonista in una dimensione tanto reale quanto la nostra, dove il dolore e la depressione non sono affrontati con i poteri ma con la forza d’animo, l’unica arma in nostro possesso per risollevarci dal baratro. Se per Miller il rinascere è possibile grazie alla fede e all’amore, per Claremont è possibile rinascere solo grazie all’autocoscienza di se.

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