[der Zweifel] La Grande Abbuffata: bisogna mangiare!

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Basta con i sentimentalismi, voglio fare un film fisiologico” – Marco Ferreri

La nostra società, e anche quella mondiale, è stata compromessa ultimamente da notizie non poco accattivanti. L’addio de “Er Pupone” che dall’alto dei suoi quarant’anni lascia il pubblico calcistico nella disperazione. Ragazzi di quindici anni che si sparano e accoltellano. Nella parte della politica internazionale, il G8, consumatosi nella bella Taormina, più che un meeting sulle questioni che affliggono il nostro pianeta, è stato un grande e lussuoso banchetto –ricordava un po’ la sala della guerra ne “il dottor Stranamore”, dove assieme ai problemi bellici non mancavano di certo ostriche e caviale. L’attentato di Manchester e la cattura di Philip Budeikin, l’inventore del gioco suicida “Blue Whale”, sono altrettanti fattori che portano questo periodo in quella che Benigni avrebbe satiricamente commentato come l’era del rincoglionimento totale. Molta gente protesta, si appella al buon senso, chiedono giustizia. Altri, molti, si buttano sul cibo: unico calmante apparentemente innocuo che ti allontana dai mali del mondo.

Per uno come Marco Ferreri è invece tutt’altro. Il cibo come critica sociale, e in questo momento storico si potrebbe riesumare dal cimitero di celluloide uno dei film più criticati del ventesimo secolo. Tuttavia è uno dei pochi venutimi in mente che possano descrivere quest’instabile situazione di precarietà e paura come nessun altro. Definito da Luis Buñuel come un monumento all’Edonismo, “La grande abbuffata” o “La grande bouffe”, il titolo originale, è forse il più bel film grottesco di tutti i tempi. Quando la gente non sa bene come categorizzare un film grottesco, bè, basta guardare questo e già un significato più grande viene fuori. Quasi sicuramente il capolavoro del regista genovese Ferreri il quale, con una pungente e avanzata immaginazione, da vita a uno spettacolo macabro, erotico e comico dove i personaggi principali sono le incarnazioni di quattro varianti del vivere comune: di quei quattro elementi che se posti all’interno di una società sono a grandi linee un riassunto di quest’ultima. C’è Ugo, il cuoco, che rappresenterebbe il cibo. Philippe, il giudice, è la mano della giustizia. Il pilota d’aereo Marcello rappresenterebbe l’avventura, i trasporti e un amore galante. Michel, invece, come produttore televisivo è quello che più si avvicina all’arte e allo spettacolo. Tutti e quattro amici, non si sa da quanto tempo, borghesi e con il marchio di quella filosofia borghese e pantofolaia. Riuniti nella città della democrazia, dell’illuminismo e della rivoluzione, per porre fine alla loro esistenza sciatta e senza più uno scopo. Quattro vite ridotte allo stremo dalla lenta litania del mangiare, del dormire, defecare, copulare, del bere e dell’orinare. Quale sarà secondo voi il mezzo con il quale si toglieranno la vita? Un Harakiri Culinario. Mangiare fino a scoppiare.

Il film si apre già con questa decisione. Si ritrovano nella vecchia casa dell’amico giudice Phlippe, nella Rue Boileau. Ugo penserà a preparare da mangiare, così fa chiamare dei gastronomi che portino selvaggina e prodotti freschi; agnelli, cervi, cinghiali, vitelli, ostriche. Philippe lo aiuta in cucina mentre Marcello, schiavo del sesso e della perversione, resiste più poco in quell’atmosfera maschile. A Michel questo non importa molto: il suo animo leggero e gentile lo porta a dei piccoli allenamenti di danza classica prima di iniziare a pappare, come Ugo istiga a fare più di una volta. “Cena offerta da quattro simpatici uomini borgognoni, a quattro amabili puttane di Canterbury”; così recitava l’invito dei quattro uomini per avere un po’ di compagnia. Marcello, da aviatore spasimante, riesce a convincere tre donne di facili costumi a deliziarli della loro presenza. A loro si affiancherà anche una maestra di scuola elementare, Andrea, conosciuta quasi per caso, che accetta volentieri l’invito offertole da Philippe. A lungo andare, Andrea si dimostrerà la più perfetta per il ruolo d’ingorda compagna di giochi e di tavola, mentre le altre quattro decidono di andarsene, spaventate dai modi strani dei quattro che continuano a mangiare senza fermarsi un momento. Andrea è come un grosso demone, una figura divina quanto infernale che accompagna ognuno dei quattro protagonisti verso il proprio destino; non prima, però, di aver assaggiato le sue carni robuste e sessualmente tenaci.

Il concetto di Vanitas, che Michel recita nel film come fosse l’unico grido disperato rimasto, si trasforma anche quello in una mera utopia quando uno a uno presenti e protagonisti iniziano a capire che in quello strano suicido ci sia qualcosa che non va. Ormai è troppo tardi. Rassegnati e senza più forze, pieni come otri, si lasciano andare, coccolati dalla figura della corpulenta maestra. Il primo sarà Marcello che, dopo aver capito di essere diventato impotente e incapace di imporre la sua virilità sessuale ad Andrea, fugge con una vecchia Bugatti durante una tempesta di neve, ma muore congelato senza essere arrivato fuori dalla cancellata. Messo delicatamente in una cella frigorifera, il secondo che ci lascia le penne è Michel: dopo una scarica fortissima di meteorismo muore dopo il grande sforzo immerso nelle sue feci. Rimasti solo in due, Ugo e Philippe si preparano alla realizzazione di una cupola immensa composta essenzialmente da paté di pollo, oca e anatra. Un capolavoro, secondo lo stesso Ugo, che i clienti del suo ristorante non potranno mai assaggiare. Eppure anche per il cuoco arriva il momento di levare le tende, e perché Philippe e Andrea non gradiscono quel capolavoro, Ugo decide di mangiarselo da solo, pur di non riconoscere a se stesso di aver fallito. Ridotto a uno stato inerme come fosse un vegetale, sul tavolo da cucina è imboccato dal caro amico mentre Andrea compie il suo desiderio di masturbarlo. Se ne andrà così, e lasciato nella cucina, “Il suo mondo” dice amorevolmente Andrea. Sotto il tiglio del giardino, Philippe attende un dolce a forma di tette che la donna gli ha preparato. Come ultimo superstite sente di aver tradito i suoi amici, ma tutto quel mangiare e il fisico già minato dal diabete lo porta a morire tra le braccia di Andrea, la quale, si alza e rientra in casa.

Fischiato fragorosamente a Cannes nel 1973, soprattutto per la scena delle scorregge e dell’esplosione del gabinetto, “La grande Abbuffata” percorre vari temi. La già citata critica alla società vecchia e borghese, ai consumi e alla monotonia della vita. Il tema dell’amicizia che in questo frangente è un sentimento arrivato alla fine, alla morte; perciò si tratta di un’amicizia sporca, disinteressata quasi annoiata. Il tema della potenza maschile ridotta a strascichi mesti e puzzolenti; stendardi fallici ormai vecchi e inutili. Mentre la donna è sempre viva e verde; Andrea, come ho già detto in precedenza, è una figura quasi irreale. Una donna “Boteriana” che mangia e copula e accompagna come Virgilio o un Caronte, i quattro personaggi nell’oltretomba. La tematica della nascente filosofia di vita del buddismo anche in occidente; il cinese all’inizio del film e la strana comparizione di un cane ogni qual volta uno dei quattro protagonisti muore: forse una probabile reincarnazione. Infine c’è un cast formidabile che tiene il ritmo e che rende un film difficile da digerire come questo un’opera quasi immortale, mistica e mitologica. Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Marcello Mastroianni e Michel Piccoli: quattro grandi attori del cinema italiano e francese che non sono fuori neanche loro dalla fantasia del film. I loro veri nomi mostrano in legame con i personaggi e con le loro vite. Anch’essi parte di quella società. Infine, Andrea Ferreol. Ferreri non è tanto attento alla buona forma della pellicola, quanto all’azione e al senso che si da vedere ogni singola scena. In alcune sue parti è duro, grezzo, quasi lasciato via. Io amo questo film e devo ammettere che è uno dei migliori mai girati. Altri invece non lo ritengono all’altezza.

Dopotutto un film è come una pietanza: o piace o non piace. Anche se si potrebbe aggiungere che solo perché una pietanza si presenta esteriormente in maniera migliore di un’altra, non vuol dire che alla fine sia più buona.