[der Zweifel] Il Processo di Orson Welles – la Praga immaginaria

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Praga è una città magica, specialmente di sera. La “Città d’oro” o la “Città delle cento torri”, custodisce ancora antico e nuovo, sfoggiando gli sfarzi passati del dominio austriaco, di quello nazista e sovietico, fino alla fase moderna. È inoltre, e cosa non meno importante, una città artisticamente e culturalmente indipendente. Uno fra tutti quei grandi artisti che hanno calpestato le strade della città si cita sempre, il più importante. La figura di Kafka riecheggia ad ogni angolo della strada aumentando il turismo di massa. Se a prima vista può sembrare sfruttato in maniera alquanto prorompente, quell’aria misteriosa, ambigua e puramente kafkiana che si ritrova nelle sue opere la senti, la vivi, la vedi soltanto guardandoti attorno. Dal castello al ponte Karlov, dal quartiere ebraico alla parte più periferica.

Ma visto che è doveroso parlare di cinema, il primo film da citare dopo aver visitato Praga è proprio ispirato a un romanzo del grande scrittore boemo. A dire la verità è sinceramente l’interpretazione cinematografica di uno dei suoi scritti più belli e inquietanti che la sua mente potesse partorire. “Il Processo” è l’omonima trasposizione del romanzo, diretta da un altro importante artista che nel secolo scorso ha rinnovato largamente il cinema americano ed europeo. Nel 1962 Orson Welles fece avanti indietro dall’Italia alla Germania Ovest, dalla Francia alla Jugoslavia per le riprese e continui provini, e ciò che dalla fase di produzione ne venne fuori è semplicemente un film straordinario che lo stesso Kafka avrebbe apprezzato. Un film che ripercorre un po’ tutte le tematiche dello scrittore ceco, facendoti venire voglia di tornare a Praga, sebbene nemmeno una scena sia stata girata nella capitale della Repubblica.

Anthony Perkins nel ruolo di Josef K.

 

I dieci capitoli che dividono il romanzo sono naturalmente accorciati o sorvolati ma il clima pesante che si respira sin da subito nella scena iniziale, quella in cui Josef K. viene svegliato dai due poliziotti che lo dichiarano in arresto, è una violenza inaudita che cerchiamo solo di immaginare leggendo le pagine del libro ma che nel film appare ai nostri occhi tagliente come la lama di un pugnale. Lo stesso pugnale che nel libro uccide il povero protagonista che non saprà mai la sua colpa, sostituita nella pellicola da dei candelotti di dinamite. Intramezzato da musiche estranianti e dall’adagio di Albinoni, il film segue una scia propria nel ricreare le ambientazioni adatte a ricreare un’atmosfera ricercata. La cameretta di K. nel palazzo che appare isolato decine di chilometri dalla civiltà, l’immenso ufficio a metà strada tra una catena di montaggio e un’azienda moderna, le stanze del palazzo di giustizia anguste e piene di scartoffie, persone stralunate o completamente vuote. Ma il resto è tutto molto angusto e austero, persino i personaggi; perché è proprio il punto d’incontro tra la pellicola e il romanzo: l’incapacità di conoscere la propria accusa, l’incontro con individui alienati e alienanti che cercano invano di aiutare il protagonista senza riuscirci o quelli che invece gli fanno credere di poterlo fare uscire da quella spiacevole situazione conducendolo alla disperazione fino alla rassegnazione che la vita sia crudele, inspiegabile e inaspettata. L’avvocato Hastler è uno di quelli che hanno già capito il gioco dell’esistenza, oppure solo un altro che crede di saperlo portando K. In un vortice senza fine, senza scopi né uscita. Un uomo, interpretato dallo stesso Welles, al quale non interessa la sorte dei propri clienti. La momentanea passione amorosa che scoppia e subito muore tra Joseph K. e Leni (Romi Schneider), segretaria e infermeria dell’avvocato, tra le carte di altri sventurati clienti è il massimo della degradazione umana, simbolo che niente è poi così importante e facilmente dimenticabile quando appare una donna o quando si scambiano affari con la sessualità.

Josef K. e l’avvocato Hastler
Orson Welles nei panni dell’avvocato Hastler

La sorte di K. è già segnata sin dall’inizio. Un tema forte nella produzione letteraria di Franz Kafka che si immerge autobiograficamente nei propri personaggi principali e che nel film trova concretezza nell’esile e slanciato Antony Perkins –noto ai molti come il Norman Bates in Psycho-. Tuttavia il grande regista gli offre un ruolo diverso. Il suo K. è proprio come ce lo si aspetta: scuro di capelli, con la faccia un po’ da vile e ingenuo impiegatuccio, l’uomo qualunque messo sotto torchio dai responsabili di leggi inequivocabili, divine, alle quali bisogna chinare la testa. Il peso di condurre una vita serena e giusta nella società. Leggendo le infinite biografie su Kafka si intuisce come egli stesso abbia faticato per restarne dentro senza sgarrare ma con la costante paura di uscire fuori dal tracciato. “Il Processo” di Welles è fedele a tal punto da spiegarlo con la voce fuori campo nei titoli di testa e con il racconto del contadino e del guardiano del portone. Assieme ad altri interpreti, ci sono pezzi di altre città che ne formano una sola; una Praga reale ma tetra, oscura, magica e intersecata da varie culture, da vari volti.