Lucca Comics and Games 2019 è stata l’occasione perfetta per poter incontrare LRNZ, “alias” di Lorenzo Ceccotti, uno dei migliori artisti a 360 gradi del nostro paese. Ospite di Star Comics durante tutta la durata della fiera, Lorenzo presentava la sua storia contenuta in Ghost in the Shell – Global Neural Network, raccolta storie che omaggiano il capolavoro di Masamune Shirow, realizzate da autori provenienti da tutto il mondo.


Ciao Lorenzo e bentrovato. Visto che siamo quasi alla fine dell’evento, bilancio di questa piovosa edizione di Lucca?

Ciao! Direi che è andata molto bene. Devo dire che, nonostante il clima sia stato inclemente per tutti e 5 i giorni – al posto degli avventori mi sarei scoraggiato sicuramente – c’è stata una grande affluenza, da record. Anche per quello che mi riguarda, tutte le mie attività sono andate molto bene, quindi sono molto contento.

L’anno scorso, essendo stato il curatore della locandina dell’evento, eri letteralmente sotto i riflettori, anche grazie all’espediente che hai trovato per realizzare il poster. Hai letteralmente creato un algoritmo che generava locandine, guide, mappe, addirittura i bicchieri griffati Lucca Comics sempre diverse. Ti confesso che mi hai messo anche un po’ in crisi per cercare di raccoglierne il più possibile!

Era impossibile collezionare tutto (ride, ndr)! Entrando nel merito della soluzione tecnica: essendo io un disegnatore che cerca sempre di trovare nuove strade, un po’ per non smettere di migliorarmi, un po’ per uscire dai soliti schemi, mettici anche che sono abbastanza indisciplinato, sperimentai un videogioco per il quale avevo progettato una soluzione per generare personaggi sempre diversi basati sul mio stile di disegno, un po’ come nei classici giochi gdr in cui puoi customizzare il tuo personaggio. Mi attirava molto la possibilità di applicare questa stessa logica di generazione delle immagini alla grande libertà che ti da la stampa digitale. La stampa digitale, a differenza di quella offset, è libera dal concetto di clichè di stampa e consente quindi tirature multisoggetto estreme, in cui ogni elaborato è diverso dall’altro. Una cosa che, a mia memoria, non è mai stata fatta per l’illustrazione figurativa o nel fumetto. Quando mi è arrivata la proposta dell’organizzazione di Lucca, avevo quindi già il colpo in canna. Questo evento riesce a raggiungere un numero spaventoso di persone, con la possibilità di applicare questa idea a tante cose diverse. E’ vero che, ad esempio, il numero delle copie dei programmi è altissimo, ma non è così per tutti gli elementi della comunicazione del festival, pensa ad esempio ai cataloghi che vengono stampati in una scala di 100 volte inferiore. Per quanto impegnativa, i numeri ci dicevano che era una cosa assolutamente fattibile e ha funzionato: alle mostre, ho anche fatto le sessioni di firmacopie utilizzando un plotter che mi permetteva di generare firme sempre diverse, uniche, e questo secondo me può dare anche un nuovo valore agli originali, alla firma degli artisti, visto che le matrici dei vari disegni sono poi state distrutte. In questo senso il digitale va completamente ripensato, può decisamente finire fuori dalle logiche di riproduzione meccanica così come le ha pensate Walter Benjamin. Lucca è una moltitudine, una comunità, e inizialmente ero partito da questa idea, di rappresentare tutta la comunità con una sola immagine. Poi però ho voluto concentrarmi su degli scorci, magari mentre vedi due cosplayer che si mangiano un panino a bordo strada. Invece di crerare un’immagine che la contenesse tutta, questa moltitudine, ho proposto di creare una moltitudine di immagini di individui uno diverso dall’altro. Cosimo Lorenzo Pancini, direttore artistico della fiera, e che si occupa di arte generativa, ha raccolto subito l’idea, e alla fine è andata bene.

E’ stata vincente anche l’idea di poterlo far personalizzare, quindi complimenti ancora.

Ti ringrazio!

Quest’anno il tema è Becoming Human, e non credo ci sia miglior fumetto che incarni questa immagine di Ghost in the Shell. Che rapporto hai con esso?

Ci tengo molto a dire che io mi sono innamorato di Ghost in the Shell da ragazzino prima di tutto dal punto di vista visivo, vuoi per la fisicità dei personaggi femminili, vuoi per il design dei mecha che mi ha distrutto il cervello. Shirow non era l’unico a fare quelle cose, ovviamente, ma è stato il primo con cui sono giunto in contatto. E’ stato però il film del ’97 che ha fatto letteralmente breccia dal punto di vista del linguaggio. Faceva parte di un cinema che io amo, visualmente intensissimo, decisamente lento, in grado di aprire spazi speculativi profondissimi. C’era molta psicologia e filosofia. E poi c’era il design di Shoji Kawomori che non faceva affatto rimpiangere quello di Shirow, visto che è stato uno dei suoi padri putativi per quanto concerne il Mecha Design.

Star Comics ha appena pubblicato un bel volume proprio su Ghost in the Shell, Global Neural Network, una raccolta di tributi all’opera di Shirow realizzati da autori internazionale, tra cui anche il tuo. Come è nata questa collaborazione, e che tipo di libertà hai avuto?

Ho avuto molta libertà e fortuna. Dopo aver pubblicato Golem anche negli Stati Uniti, ho raccolto molti consensi. Brenden Fletcher, sceneggiatore canadese, è stato quello che sembra essere stato più colpito di tutti: mi ha fatto avere subito i suoi complimenti, e mi ha addirittura proposto di collaborare con lui in DC Comics, dove stava lavorando all’epoca. Tempo dopo, mi ricontattò, dicendomi che gli era stata proposta questa collaborazione per Ghost in the Shell, e voleva assolutamente che disegnassi io la sua storia. Non potevo rifiutare, ovviamente. La cosa bella è che Brenden si era innamorato anche del mio modo di raccontare, e questo ci ha permesso di lavorare molto bene insieme. Nonostante avessimo avuto molta libertà, l’approvazione ha richiesto molto tempo, ma ovviamente perché progetti del genere vengono controllati da molte persone. Inoltre, Brenden ha avuto un’idea a mio avviso geniale: in Ghost in the Shell si approfondisce molto il ruolo dell’anima, del Ghost, mentre lui ha voluto mettere sotto i riflettori il corpo, lo Shell. Si è chiesto: e se le Motoko Kusanagi viste nel manga, nell’anime, nei film, non fossero semplicemente delle rappresentazioni diverse, ma se fossero tutti degli Shell diversi? Se fosse la personalità di Motoko a cambiare proprio in funzione dello Shell in cui si trova? Mi ha mandato letteralmente fuori di testa, e tra l’altro andava molto vicino a degli studi grafici che stavo facendo proprio su questo genere di cose, sulla superficialità delle cose. E’ un argomento che mi interessa davvero molto dal punto di vista filosofico, e penso che questo fumetto lo affronti molto bene.

A livello grafico, a quali canoni dell’opera di Shirow ti sei attenuto di più?

 Se l’idea iniziale di Brenden mi piaceva molto, sapevo però che mi sarei dovuto ovviamente attenere a tutti gli stili delle varie incarnazioni di Motoko: lo stile del manga, dell’anime, di Stand Alone Complex, di Arise. Una cosa non banale, soprattutto per via dei tempi ristretti che avevamo. Dovevo fare in modo che le varie anime di Motoko potessero uscire con tutte le loro caratteristiche al posto giusto, senza fare un semplice patchwork. Dovevo trovare un minimo comune denominatore fra tutte queste visioni.

Come ti sei trovato a lavorare con un’altra persona, visto e considerato che di solito tu lavori da solo?

 Non voglio assolutamente sminuire l’argomento, ma visto l’amore che Brenden aveva per il mio lavoro, è stato tutto davvero molto, molto semplice. Ci sentivamo 2,3 volte a settimana, rimanendo in chiamate anche per 6 ore di fila. E’ stato anche molto divertente perché potevamo fare un sacco di cose. Forse ci siamo scordati di tornare in superficie alle volte, abbiamo scavato molto, arrivando quasi all’ermetismo. Ma è esattamente il tipo di fumetto che mi piace di più.

Ghost in the Shell però si presta molto bene a questo tipo di riflessione e di approccio. Hai avuto qualche riscontro da Shirow?

 Lui ovviamente ha supervisionato tutto il progetto, quindi la parte più ansiogena è stata proprio la fase di approvazione. Purtroppo, non ho avuto modo di incontrarlo e conoscerlo, ma ho saputo che la storia gli è piaciuta molto.

 Parlando in generale dell’opera di Shirow, quali credi che siano le caratteristiche che, all’epoca della sua uscita, lo hanno consacrato fra i canoni del cyberpunk, e che, soprattutto, rimangono attuali ancora oggi?

 Hai centrato il punto. Shirow ha avuto un’intelligenza che posso solo che rispettare al massimo. Non si è mai minimamente risparmiato di approfondire al massimo le tematiche che ha intavolato. Il solo impianto formale poteva già bastare a renderlo un successo commerciale, con donne bellissime, macchine bellissime, futuro distopico, illustrato in quel modo. La sua bravura è stata proprio quella di non accontentarsi, di estremizzare, massimizzare tutto. Ha preso a piene mani dalla stessa cultura che esisteva già nel genere, come da Asimov o Gibson. Unendo questa cultura enciclopedica sul genere, ad uno spirito squisitamente pop al limite del pulp, il risultato non può essere che un capolavoro.

Visto il tuo amore per Ghost in the Shell, mi viene spontaneo anche chiederti cosa ne pensi del film americano.

Non l’ho ancora visto, quello che avevo visto dai trailer non mi aveva entusiasmato. Voglio vederlo però, semplicemente non mi ha instillato abbastanza curiosità.

Prendendo spunto dall’altra tua collaborazione con Star Comics, ovvero la variant del primo numero di Bakemonogatari, vorrei riproporti una domanda che feci tempo fa ad un tuo amico e collega, Matteo De Longis. Abbiamo parlato anche di te proprio in quell’intervista, in quanto credo che siate sulla stessa linea d’onda a livello stilistico, uno stile che guarda molto al manga. Quale pensi che sia dunque la sua forza e cosa la rende così unica?

Andando al fulcro, il principio su cui si basa il manga è esattamente l’opposto su cui invece si basa tutto il resto del fumetto mondiale. L’alfabeto visivo del manga è fatto di segni rigidi, che non ha niente a che fare con qualsiasi altra scuola di disegno. Noi siamo abituati a partire dalla comprensione di ciò che si vuole disegnare, a come funziona l’interno per poi arrivare alla superficie. Il manga è parte dalla superficie per creare un codice visivo condiviso, usato da tutti. Noi siamo ancora legati all’idea che ogni artista debba ancora dire la propria, in termini di segno grafico, ma questo non è sempre possibile, soprattutto nel fumetto. In Giappone, nessuno si sognerebbe mai di accusare un disegnatore di aver copiato da un altro. Il disegno è diventato un sistema archetipico, ogni specifico segno ha un suo specifico significato e va usato in quella determinata situazione, per quella specifica necessità, un po’ come fossero parole in un dizionario. Quando ci si approccia alla lettura di un manga, si nota immediatamente come sono stati realizzati i volti, ad esempio; la cosa interessante è che i volti, all’interno di una vignetta, hanno lo stesso peso di un balloon. Il fumetto, in fondo, è la perfetta convergenza fra scrittura e disegno fatta a medium; e chi può essere, in quest’ottica, il popolo più potente di uno che scrive come disegna? I manga per questo sono indistruttibili, è una questione culturale troppo forte ed inaccessibile al resto del mondo. Ovviamente, ha dei limiti: una persona che non ha mai letto manga o visto anime, rimarrebbe ovviamente stranita nel vedere, ad esempio, un gocciolone enorme sul viso di un personaggio. Chi invece ha da sempre fruito di questo tipo di fumetto, capisce immediatamente che si tratta di una manifestazione di imbarazzo, e quindi addirittura ti permette di cogliere un messaggio senza dover leggere le vignette. Ci sono ovviamente molti autori occidentali che guardano al manga, ma è vero anche il contrario, basti pensare ad autori come Katsuhiro Otomo, Katsuya Terada, Range Murata o anche lo stesso Miyazaki. Stiamo andando in una direzione in cui Il modo di pensare grafico giapponese si sta interfacciando al nostro, cambiando il nostro modo di pensare alle immagini. Basti pensare agli emoji. Li usiamo tutti e cosa sono se non una forma archetipica/ideogrammatica di esperessione? La cosa bellissima, se vuoi, è che tutto ciò è avvenuto grazie ad una forzatura: la fine del sakoku (ovvero la fine della “chiusura” culturale del Giappone, avvenuta verso la metà dell’800, ndr) ha rappresentato uno shock per noi, permettendoci di venire in contatto con qualcosa di totalmente alieno. Una cultura che si è sviluppata in modo totalmente isolato. Tornando alla tua domanda, mi fa molto piacere venire accostato a Matteo perché penso sia un grande artista. Abbiamo uno stile in un certo senso simile proprio perché entrambi cerchiamo la contaminazione, da un verso e dall’altro.

Come dicevi anche tu prima, ti occupi di un sacco di cose, oltre al fumetto, e questo mi affascina molto del tuo lavoro. Prendendo come esempio Golem, si vede in più punti quando il Lorenzo designer “contamini” il Lorenzo fumettista. Capita mai il contrario, ovvero che il fumetto emerga in altri tuoi lavori?

Assolutamente. Insegno in una scuola di design industriale che si occupa di design di prodotto, comunicazione e design di sistemi, e utilizzo proprio l’arte sequenziale per spiegare come si argomenta un’idea. Se ho scelto il fumetto come perno di tutto il mio lavoro è proprio perché lo ritengo fondamentale per approcciare qualsiasi tipo di progetto, di qualunque natura esso sia. E’ la forma di linguaggio visivo più bella che ci sia. E’ inoltre il modo perfetto per sviluppare proof of concept: se devi sviluppare un film, ad esempio, quale modo migliore c’è per poterlo fare se non attraverso il fumetto? Non ultimo, da disegnatore, questo approccio così sintetico ti permette di avere le idee molto più chiare sulla messa in scena delle tue idee. Pensa ad esempio all’arte italiana, per la maggior parte fatto di busti di persone che fissano in macchina: non è tanto il “cosa”, quanto il “come” viene realizzato ad essere estremamente affascinante, a produrre unicità e contenuto. Non voglio certamente negarne la bellezza, anzi. Sono perfettamente al corrente del fatto che forma e contenuto siano inscindibili, ma il fumetto riporta in centro proprio il “cosa” e lo fa con una forma forte e chiara.

Riprendendo Golem, ma anche Astrogamma, è evidente la ricercatezza anche nella cura dell’oggetto in se, nel libro anche in quanto oggetto fisico.

Abbiamo parlato proprio adesso del contenuto e della forma. Quest’ultima va ovviamente curata fino in fondo. Un libro, una volta comprato, ti rimane in casa, può diventare addirittura un oggetto da arredo, e un libro ben curato ti invoglierà di più a tenerlo in vista, e quindi a riprenderlo e a rileggerlo. Inoltre, puoi sfogliarlo, partendo da un punto, tornando ad un altro, eccetera. Il tempo del libro è nelle mani del lettore, e non deve essere in nessun modo un impedimento alla sua fruizione. Un libro piacevole da leggere e da toccare rimarrà per più tempo nelle tue mani, ed è per questo che cerco anche di curare a fondo anche l’aspetto fisico dei miei fumetti.

 E riguardo a Geist Machine cosa puoi dirci?

Uscirà a Lucca prossima, sarà una serie di 3 libri, molto grossi. Sarà sempre un racconto di fantascienza, ma diverso da Golem, essendo una ambientazione post-umana. Diversamente da Golem in cui i personaggi erano deliberatamente bidimensionali, per rappresentare un’idea di una allegoria complessiva, Geist Machine avrà più spazio per raccontare le loro relazioni ed evoluzioni interiori. Avrà un uso del plot molto più convenzionale, ma sarà comunque pieno zeppo di esperimenti sul linguaggio come mio solito, a partire dallo stile grafico.

E’ stato davvero un grande piacere poterti incontrare Lorenzo, grazie mille per la chiacchierata e per il tuo tempo.

Il piacere è tutto mio, grazie a te!

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