Leaving Neverland – La banalizzazione della denuncia | der Zweifel

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Leaving Neverland

Non sono mai stato un fan di Micheal Jackson. O meglio. Non ho mai fatto altro che ascoltarne la musica. Come moltissimi di noi immagino. Non mi interessano inutili crociate in difesa di paladini immaginari. Ma questa volta voglio impiegare questo spazio per una riflessione su Leaving Neverland, trasmesso in Italia dal canale Nove, e le sue conseguenze.

Premetto che non ho visto il documentario e non sono intenzionato a vederlo, almeno per il momento. È il metodo di tutta la vicenda il centro del mio interesse.

Questo documentario, girato nel 2018, riporta a galla le accuse di pedofilia contro Micheal Jackson. Non è assolutamente sbagliato cercare di fare chiarezza su una vicenda sicuramente dolorosa. Tutt’altro. Ma non sembra questo l’intento del film. Anzi.

Sono due i protagonisti del lavoro di Dan Reed: Wade Robson e James Safechuck, entrambi frequentatori, da bambini, di Neverland. I due raccontano, separatamente, la loro versione dei fatti, nonostante al processo che lo stesso cantante ha subito tra il 2003 e il 2005 siano stati fondamentali, con le loro testimonianze, per l’assoluzione proprio di Jackson. Dettaglio non da poco, anche se si potrebbe comunque asserire che solo ora, da uomini adulti, hanno trovato il coraggio e la forza di parlare.

Ma basta questo per condannare un uomo? Basta veramente un film ben fatto per sovvertire l’opinione che il mondo ha su una persona? Dopo l’uscita del documentario, negli Stati Uniti, canzoni come Billie Jean, Smooth Criminal e Thriller -solo per citare le più famose- non suoneranno più nelle radio, che hanno deciso di boicottare il cantante. Persino l’episodio dei Simpson in cui Micheal Jackson prestava la voce ad un paziente di un manicomio non verrà mai più trasmesso.

Per un documentario. Per un documentario che presenta, però, la storia da un solo punto di vista. Punto di vista che non lascia certamente indifferenti, ma certamente non verbo di verità.

La reazione che è si scatenata è però, se vista con gli occhi dell’oggettività e dello stato di diritto, preoccupante. Seguire l’onda dell’emotività ci allontana da quello che è la giustizia, e anzi ne mina le fondamenta.

Perché può capitare a chiunque. Anche a te che leggi, o a me.

In Italia abbiamo assistito a qualcosa di simile con Fausto Brizzi, prima accusato di violenza sessuale da un programma televisivo e così abbandonato conseguentemente dall’industria cinematografica italiana. Ora viene riabilitato, perché il fatto non sussiste.

Io non posso affermare con certezza che Micheal Jackson non abbia mai molestato un minorenne, così come non posso affermarlo di nessuno oltre che di me.

Comunque, a leggere la critica, sembra che Leaving Neverland sia emozionante, un bel film da vedere. Lo pensa anche Kristen Baldwin, di Entertainment Weekly, che però sottolinea come for something that calls itself a “documentary,” it is woefully one-sided — and in some cases, conveniently selective about the information it chooses to include about its two subjects.

Il mio, per concludere, non vuole essere un invito a tacere e a nascondere molestie, violenze o quant’altro. Tutto il contrario. Cerchiamo di non banalizzare un certo tipo di accuse solamente per fare audience.