[Recensione] Moonlight – Un dramma sulla diversità in tre atti

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Gli Oscar sono ormai dietro l’angolo. Domenica tutto il mondo si radunerà fisicamente (o telematicamente) per assistere alla più famosa premiazione in ambito cinematografico a livello mondiale. In seguito, come sempre, un buon 98% del pubblico si ritroverà a bestemmiare sonoramente ed emettere suoni gutturali, seguiti da lunghi e rovinosi peti, alla scoperta degli effettivi vincitori. Diversamente dalle decadi scorse…lo faranno su Twitter:

“Avatar…è uscito quest’anno, giusto?”

“Marrani, piantatela di far vincere le peggio cose! #noncapiteuncazzo”

“Date due Oscar a Di Caprio! #JeSuisLeonardo!”

“Forrest Gump migliore di Pulp Fiction? Vi siete fumati il cervello? #Illuminaticiosservano”

Se devo dire la verità, mi è sempre importato davvero poco degli Oscar. Spesso e volentieri vengono selezionate e nominate pellicole non eccezionali, spesso paracule o leccaculo. Come se non bastasse, dopo la visione dell’ultima stagione di Bojack Horseman, dubito che finirò per cambiare le mie idee a riguardo. Il cinema è business, Los Angeles è la capitale del business e gli Oscar sono i premi più patriottici e “chiusi” del mondo…e dubito che ciò verrà a trasformarsi nell’immediato futuro. Ciò non toglie che, in mezzo ai vari film nominati, ci possano essere delle opere interessanti, capaci di essere ricordate negli anni a venire.

Moonlight, forse, è una di queste.

Moonlight, pellicola del 2016 diretta da Barry Jenkins, almeno in superficie, può dare l’impressione di essere l’Oscarbait definitivo. Un’opera tratta da una pièce teatrale mai rappresentata in teatro che parla di un personaggio in tre distinte età della propria esistenza. Un “bildungsroman” (romanzo di formazione…tipo Pinocchio per intenderci!) con protagonista un ragazzino di colore, cresciuto in una situazione familiare difficile e in quartiere indescrivibilmente squallido, e intento a sperimentare piuttosto apertamente la propria sessualità. Si, avete capito bene…questa pellicola parla di un uomo afroamericano povero e omosessuale.
Tremendamente specifico…davvero l’oscarbait definitivo…se il protagonista fosse pure malato o schizofrenico.
Ma torniamo ad essere seri.

Come ho già spiegato la pellicola è tratta da un’opera teatrale intitolata “In Moonlight Black Boys Look Blue” ad opera di Tarell Alvin McCraney. Pare la pièce sia pesantemente ispirata alla vita del suo autore…tuttavia come ho già spiegato IMBBLB non ha mai visto una prima teatrale…quindi prendete le mie parole con le pinze.
La storia raccontata in realtà è piuttosto semplice: al centro di tutto c’è Chiron, un giovane ragazzo di cui ci verranno raccontate le origini (e il suo rapporto difficile con la madre tossicodipendente e violenta), la sua crescita, il suo relazionarsi con determinate figure paterne (come lo spacciatore del suo quartiere Juan), i suoi anni del liceo (in cui verrà bullizzato a causa della sua sessualità “diversa”) e infine la sua età adulta in cui, a seguito di un lungo soggiorno in galera, decide di rifarsi una vita a modo suo.
La stessa pellicola distingue principalmente tre periodi della vita di Chiron: Little, Chiron e Black. Questi tre titoli si riferiscono a nomi o nickname utilizzati dallo stesso protagonista (o a lui affibbiati da altri) nei rispettivi periodi.
Little (letteralmente “piccolo”) è il nome con cui viene presentato il giovane protagonista e indica la sua prima infanzia; Chiron, ovvero il vero nome del personaggio, si ricollega alla sua vita da liceale; Black (“nero”) è invece il nome d’arte da lui utilizzato per…diciamo le sue attività post-carcere. La divisione dei tre periodi, bisogna dirlo, è piuttosto netta e vengono utilizzati dei salti temporali e cambio di attore decisamente considerevoli.

Dettaglio che mi ha subito colpito durante la visione del film è, non lo immaginereste mai, una certa lentezza di fondo. L’opera sfiora le due ore di lunghezza, si prende tutto il tempo che vuole, ti racconta ogni singolo dettaglio della vita travagliata del protagonista, senza tralasciare nulla. In effetti ti ritrovi sul finale a pensare che, in fondo, si sarebbe potuto proseguire all’infinito, sino alla morte dei figli dei nipoti dei trisavori di Chiron: una storia che non ha un’inizio o una fine precisa, che rappresenta un fiume che continua a scorrere senza sosta fino alla fine dei tempi. Quindi ci troviamo di fronte ad un ritmo lento ma incessante, incalzante, apprezzabile negli intenti ma che, sfortunatamente, non tutti riusciranno ad apprezzare.
Vi avverto senza problemi, non aspettatevi esplosioni ogni due secondi o battute a profusione (non è quel tipo di film “di colore”). Che sia un bene o un male, Moonlight si prende i suoi tempi, ti vuole raccontare una storia (bella o brutta che sia) e ciò è assolutamente ammirevole.

Altra fetta importante del film è il sonoro. Sebbene sia presente una soundtrack piuttosto corposa, formata da brani originali o “prestati” che spaziano tra vari generi (dall’ambient, al rap-hip-hop), abbondano i silenzi e i momenti in cui ad un dialogo importante segue l’assenza di suoni. Tutto ciò non fa che aumentare l’atmosfera, ti porta ad apprezzare il silenzio, la calma prima e dopo svolte importanti. Ho perso il conto di tutti i momenti in cui la pellicola si sia fermata per lasciar spazio all’atmosfera.
Ottima scelta.

Registicamente parlando, non ho molto da dire. Barry Jenkins alla sua terza pellicola si dimostra capace, non eccezionale, ma pur sempre capace. Nelle riprese prevale parecchio la telecamera a mano (eccessivamente traballante a volte) quasi a voler sottolineare la nostra presenza nell’intreccio come spettatori passivi dell’azione. Particolare enfasi è posta soprattutto sui protagonisti della vicenda. Abbondano le inquadrature in cui si mette in primo piano un’espressione facciale, un cambio di sguardo o un semplice cenno visivo. Apprezzabilissimo l’intento di raccontare tanto e più delle parole con le espressioni del viso.

Riguardo il cast, credo ci sia poco da dire. Anche solo da una visione distratta o da una visita alla pagina wikipedia, potrete notare un dettaglio: gli attori causasici o di altre etnie sono ridotti all’osso. Quasi a voler confermare l’impressione che Moonlight sia un film creato da afroamericani per afroamericani. Il risultato è una sorta di full-immersion in un mondo in cui non esiste un salvatore, in cui tutti sono uguali, in cui i problemi di tutti i giorni, come la droga o la discriminazione, continuano a persistere.
Una visione particolare della vita, ma che meriterebbe di essere analizzata a fondo.
Comunque sia gli attori utilizzati per il ruolo di Chiron, ovvero Alex Hibbert (bambino), Ashton Sanders (adolescente) e Trevante Rhodes, che i vari comprimari come Mahershala Ali (Luke Cage, House of Cards) Janelle Monáe (già vista ne “Il diritto di contare”), Naomie Harris (28 Giorni Dopo, Skyfall, Southpaw) o André Holland (American Horror Story, The Knick, Selma) svolgono il proprio lavoro egregiamente, senza particolari problemi.

In realtà sui temi trattati, vorrei spendere meno parole possibili, sia per evitare possibili spoilers (non che siano fondamentali), sia per evitare di parlare di argomenti già eccessivamente chiacchierati. Mi limiterò ad affermare che la pellicola tratta temi profondi come l’omosessualità e l’omofobia, la scoperta dell’amore, la povertà o l’abuso con una certa dovizia di particolari e cognizione di causa (merito dell’autore della pièce teatrale?).

In conclusione…come definire Moonlight? Effettivamente si tratta di un’opera furbetta, che vuole palesemente portare sotto la propria ala più statuette possibili, resuscitando un’opera teatrale del decennio scorso e adattandola in una pellicola il più controversa e oscarbait possibile (secondo gli standard americani di oggi). D’altra parte, tecnicamente parlando, in certi aspetti, rivela sorprese inattese che non mi sarei aspettato di trovare. Bisogna ammettere che non si tratta di una pellicola per tutti. Moonlight tenta di darsi un tono, di descrivere una vita difficile (quasi ci trovassimo di fronte allo Zelig di Woody Allen mescolato con un film di Bergman), ma ciò riesce solo in parte. Il risultato finale non verrà digerito da molti e chi affermerà di adorarlo, o che si tratti di un capolavoro del cinema, forse si sarà lasciato abbindolare da alcune lacrime facili e dall’essere riuscito a raggiungere indenne il finale.
Magari tra diversi anni ci saremo dimenticati della piccola epopea di Chiron, non saprei neanche dirvi se si tratti di un bene o di un male. Ciò che è certo è che a seguito della visione mi è venuta sincera voglia di scoprire di più riguardo Barry Jenkins, il suo regista. Magari, e dico MAGARI, in futuro potrebbe stupirci con qualche opera meno oscarbait e più “autoriale”. Così come è successo a Matteo Garrone e al suo Gomorra.
Almeno così io spero.