Essere o non essere Amleto?

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Del dramma di William Shakespeare ci sono state così tante trasposizioni, differenti interpretazioni, diversi allestimenti, sia nel teatro tradizionale che nel cinema, che è arduo il compito di vederle tutte e tirare le somme su quale sia l’adattamento più bello. Parlando di cinema, dalla sua invenzione ad oggi, una quantità enorme di pellicole è arrivata fino a noi, toccando con bramosia e ingordigia tutti i decenni del novecento. La vicenda del giovane principe di Danimarca è così emozionante e ricca di elementi provenienti dalle civiltà più antiche e remote, quella greca specialmente, che è possibile dichiararla come un riassunto ben imbellettato, e ormai immortale, di tutta l’arte teatrale, dalla commedia al tragico, dal patetico al teatro delle maschere; Sebbene sia stata scritta nel 1600, è senza dubbio un’opera maestosa che fonda le sue basi sulla tradizione per poi metterne di altre per i secoli futuri. Considerata l’opera con il maggior numero di dialoghi nella storia del teatro. Al secondo posto c’è solo il Riccardo III, scritto sempre da Shakespeare. Io stesso, in ambito cinematografico, ho trovato faticoso ricercare il film giusto che potesse avvicinarsi con fedeltà al testo teatrale o alla messa in scena ed allo stesso tempo, tuttavia, trovare un’opera che sapesse distaccarsi dalle parole del drammaturgo inglese creando così una forma e forza propria.

A mio parere, quattro sono le trasposizioni cinematografiche che fanno di Amleto un ulteriore gemma luminosa tra i rami dell’umana immaginazione. Arrivando perciò ad essere un personaggio tenuto ancora d’occhio, un sempre verde, oltre gli amati super eroi moderni, se super eroe possiamo chiamarlo. È senza alcun dubbio un individuo carico di bella letteratura e teatralità. Un essere drammatico, comico, intellettuale e disperato che dalla scrittura è arrivato ad occupare i posti più disparati dell’arte intesa nel senso più generale della parola.

Se proprio si deve iniziare con questa sorta d’ispezione, nella ricerca dell’Amleto filmico più soddisfacente, è bene partire allora da quello veramente più fedele e sincero; l’Amleto diretto e interpretato da Laurence Olivier, uno degli attori shakespeariani più importanti del secolo scorso, che dai palcoscenici del West End di Londra calca il set cinematografico in un rifacimento di culto. Lodato per la durezza dell’attore-regista nel riportare dettagliatamente ogni singola scena, soliloquio, ogni virgola del testo originale. Grazie alla profondità di campo e alle nuove tecniche di ripresa che si fanno sempre più moderne e facilitate, sebbene sia ancora il 1948, Olivier ricrea la situazione drammatica del principe di Elsinor superando la forma più statica della pièce teatrale. Si entra con forza d’immagine nel mondo descritto da Shakespeare, e ciò che prima era solo accennato da una scenografia scarna e sufficiente, ora invece è possibile vedere oltre il palco di legno, il proscenio, e la storia –un bianco e nero affascinante nella sua crudezza-, ruota assieme al copione. Olivier vinse l’oscar l’anno seguente; il primo a vincere il premio per un film diretto da se stesso.

Dopo la fedele ricostruzione del precedente, nel 1990, dopo svariate altre interpretazioni, esce “Amleto” diretto dall’Italiano Franco Zeffirelli, già regista di drammi come “Romeo e Giulietta”, “La bisbetica domata” o “Otello”. Con Mel Gibson nel ruolo del protagonista, Zeffirelli usa un tono più leggero e chiaro, sia nella cura della fotografia e nel modo di girare, tale da farne un rifacimento non banale. Un tocco di personale senza lasciar perdere comunque la bellezza dell’ambientazioni –girato quasi interamente nel castello di Dover- e la bravura degli attori di contorno. Un cast d’eccezione composto dal già citato Gibson, spogliato della sua corazza di eroe da action movies, Helena Bonham Carter nel ruolo della pallida Ofelia, Glenn Close per quello della regina Gertude affiancata da Alan Bates (re Claudio) e Ian Holm (Polonio). C’è un superamento, questa volta più che dei dialoghi, della durata recitativa di questi ultimi. Ogni scena dura un tempo prestabilito, quanto basta per non diventare estenuante e passare con veloce acutezza a quella successiva. L’intelaiatura sia del testo sia della cornice fisica del teatro è superata e ci ritroviamo in uno spazio più sconosciuto ma brioso e soddisfacente. A metà strada tra una piccola produzione hollywoodiana e un gusto totalmente più europeo. C’è spazio sia per la trama originale che per qualche cambiamento che non infastidisce, bensì esalta ancora di più la messa in scena.

Chiamatemi pazzo, chiamatemi affrettato, ma per quanto possa solo sembrare un cartone animato per un pubblico giovanissimo, “Il Re Leone” è un classico Disney in cui la storia di Amleto calza a pennello. Una tragedia spiegata ai bambini che attraverso degli animali parlanti, apprendono in maniera divertente e più spensierata il dramma di Shakespeare. A parte alcune differenze nella trama, molto del film è riconducibile alla storia di Amleto. Il Leone, re della savana, è ucciso astutamente dal fratello Scar che prende il suo trono e fa allontanare dal regno il nipote Simba. Fattosi adulto, con l’aiuto dell’amata leonessa Simba torna a casa e dopo uno scontro riesce ad uccidere il malvagio zio e a riprendere il suo posto come sovrano. Non si potevano certo aggiungere le parti più drammatiche dell’opera originale, come la morte di Ofelia, il duello finale o la lucida pazzia del protagonista, eppure anche nell’universo Disney, prima che diventassero film propriamente infantili, a volte anche sciatti, c’era spazio per un tocco drammatico che li per li non strugge il bambino; quando si rivede lo stesso film a distanza di anni si è traumatizzati ancora di più. Dopotutto la morte di Mufasa è sempre uno strazio e così anche la crudeltà con la quale il malvagio Scar ripone nel suo piano per assassinare il fratello. A distanza di anni si può benissimo intuire anche che Scar avesse avuto il privilegio di molestare Sarabi, la moglie del defunto re, e che lei, essendo animale, avesse acconsentito all’ambiguo flirt del cognato. Ma io sto divagando. Lasciamo che venga interpretata a vostro piacimento.

E in conclusione, sebbene qualcuno abbia da ridire, il colossal scritto, diretto e interpretato da Kenneth Branagh che, come aveva fatto Olivier decenni prima, si butta in un tentativo ancor più grandioso e sensibile. La storia è la stessa, l’Amleto in carne ed ossa, foglio e carta. Le differenze sono il cambio temporale –la storia si svolge nei primi anni di un ipotetico novecento- e alcune piccole aggiunte di trama. Per il resto è una fedele ricostruzione della storia. Per una durata di quasi quattro ore, Branagh è assunto in una vera e propria epopea lenta, satura di lunghissimi piani sequenza, inquadrature dettagliate. La scenografia e la scelta fotografica risultano impeccabili anche se il mettere insieme un gruppo di grandi attori, mostri sacri del cinema, si presenti come una scelta fin troppo esaustiva; stucchevole in alcuni punti. Da Julie Christy a Kate Winslet, da Charlton Heston a Jack Lemmon, da Robin Williams a Gerard Depardieu. Tutti insieme vanno ad adornare un polpettone infinito; anche se almeno una volta vale la pena di essere visto. Dal punto di vista registico niente da dire; Branagh è sicuramente deciso su ciò che deve fare e deve essere fatto. Sebbene la differenza principale tra uno spettacolo in teatro e un film sia che quest’ultimo tende a mostrare aspetti che rimarrebbero nascosti in una pièce teatrale, la troppa fedeltà ai dialoghi fa si che lo spazio vitale dell’attore venga riempito a qualsiasi costo; ecco che le scene sono decisamente lunghe e rendono la pellicola difficile da seguire, noiosa e a volte ripetitiva. In questo caso, niente può battere una tradizionale trasposizione sul palcoscenico.

Sono Centinaia i rifacimenti e i metodi recitativi utilizzati nel riadattare questa opera. Nello stesso teatro, ci sono state interpretazioni così distaccate tra loro che fanno di quest’opera un esempio di arte che non invecchia mai e utile per qualsiasi occasione; Ricostruibile in modi e tempi differenti tenendo sempre presente e in bella mostra la sua struttura originale. Alla fine dei conti possiamo anche accettare il fatto che non ci sia l’Amleto perfetto; intanto però beccatevi questi quattro.

Come dire, il resto è sempre silenzio.