“Analizziamo il tutto, scomponiamo l’opera nei suoi elementi costitutivi, confrontiamola con simili, vediamo cosa funziona e cosa meno, sforziamoci di essere obbiettivi e di dare a Cesare quel che è di Antonello Fassari, in barba all’amarezza!”.
–Dottor Cooin “FPPS: Frasi Pompose per Pomposi Sicofanti“
Essendo questo il primo episodio di una nuova rubrica completamente dedicata al retrogaming, originariamente avevo preparato una lunga introduzione in cui, manco citassi a memoria il giuramento di Ippocrate, spiegavo per filo e per segno cosa significasse per me essere dottò videoludico, l’individuo al di sopra di ogni gusto personale (in teoria e intenti). Colui che avesse il compito di rivisitare i classici (o gli stronzi di cartapesta), presenti nel passato videoludico, per giudicarli in maniera equa, senza scadere in inutili sentimentalismi nostalgici.
Uno dei tanti miei tanti volti.
Come vedete ho ridotto il tutto ad un paragrafo. Per il resto mi presento, io sono FreddyPingus, ma in questa occasione potete chiamarmi vostro compagno in un viaggio a ritroso alla scoperta della storia videoludica, Dr Coo. La prima domanda che mi è sorta spontanea, dopo che qui a Redcapes.it mi hanno assegnato la rubrica che state leggendo, è stata: cosa si può definire retrogaming? Molte persone definiscono tali tutti i giochi che comprendono grafica 2D (sprites) o primitive tecniche 3D (Super Mario 64, The Legend of Zelda: Ocarina of Time o Tomb Raider). Altri vedono la generazione Playstation One come spartiacque perfetto. Infine ci sono coloro che, giocando su computer, se ne fregano delle varie generazioni e continuano a giocare a qualunque cosa di ieri o oggi dallo stesso terminale (salvo problemi di compatibilità Windows accompagnati da sonore bestemmie). Per come la vedo io, il retrogaming è la riscoperta del passato, di tutto ciò che i giovani videogiocatori di oggi (neanche per loro colpa) non conoscono. Dalle vecchie avventure testuali, i punta e clicca, platform, puzzle game, giochi di ruolo basati su D&D. Quindi mi perdonerete, ma la definizione di retrogaming che utilizzo tende sempre a fermarsi due generazioni precedenti rispetto a quella attuale (e su computer comprende tutto ciò che nativamente non parte sul nuovo sistema operativo di casa Gates). Sino alla 6a generazione o, per meglio dire, quella della Playstation 2, console che i ventenni di oggi conoscono molto bene. Qualcuno potrà non essere d’accordo, tuttavia, capirete, rubrica mia regole mie. Volevo solo rendere partecipi voi della gamma di videogiochi che tratteremo in questa rubrica.
“La Grafika Pompata!!”
Quindi, dopo tutto questo grosso preambolo, vi presento il gioco di cui si parlerà oggi.
Per questo episodio torneremo indietro di più di vent’anni, sino al lontano 1993, tempo in cui le avventure grafiche la facevano da padrone (tra gli appassionati) e i principali sfidanti erano da un lato Lucasfilm (poi nota come LucasArts) e dall’altro Sierra Entertainment (altresì nota come Sierra On-line). Azioniate la vostra macchina del tempo e preparatevi a sentir parlare molto di Voodoo, oggi è il turno di Gabriel Knight.
Gabriel Knight – Sins of the Fathers è considerato, piuttosto meritatamente e da tutti gli esperti, un classico del genere “avventura grafica punta e clicca”. Un titolo capace di creare personaggi immortali, entrati nell’immaginario collettivo di molti veterani del medium, e di dare emozioni al pari di un Monkey Island o un Broken Sword. Vediamo quanto di vero ci sia in queste parole e quali siano i grandi meriti di questo titolo. Ma prima un pizzico di storia.
Jane “guanciotte “Jensen.Roberta Williams.
Gabriel Knight è la creatura di tale Jane Jensen, una morbidosa (in senso buono) game designer che negli anni ’90 lavorò a più riprese con la sopracitata Sierra. Jane, oltre a gettarsi nella creazione di questo franchise (che ad oggi conta tre capitoli), lavorò a diversi titoli, alcuni dei quali in compagnia di Roberta Williams (ad esempio King’s Quest VI, considerato da molti il migliore capitolo della saga), altra famosissima game designer in quegli anni. Si devono a lei titoli come Gray Matter o una serie di giochini “cerca-oggetti-nascosti” basati su vecchi romanzi di Agatha Christie (bisogna pur campare). Per la lista completa visitate Wikipedia.
Oh, hi George.
Aldilà di tutte queste chiacchiere, la trilogia di Gabriel Knight è considerata il suo capolavoro più grande, l’opera più rappresentativa del suo stile, ciò per cui verrà ricordata (e per cui viene ricordata ancora oggi) dai posteri. In anni recenti la Jensen ha fondato una sua software house, la Pinkerton Road, famosa per ora solamente per il remake di Sins of the Fathers. Introduzione finita, buttiamoci sul titolo.
Il gioco, ambientato a New Orleans, comincia nel bel mezzo di un’indagine. Gabriel Knight, il nostro giovane protagonista (giovane dentro ovviamente) è occupato ad indagare in maniera privata, ovvero senza alcun vero consenso delle autorità, per ottenere informazioni riguardo una strana serie di delitti. Ma c’è qualcosa di strano in questi omicidi. Pare infatti che questi siano in qualche modo collegati al Voodoo…e guardacaso a New Orleans è piuttosto comune la religione Voodoo.
Il macabro inizio.
Quasi dimenticavo! Gabriel è uno scrittore in erba (oltre che proprietario di una libreria specializzata in titoli d’antiquariato, il St George’s Bookshop). Magari indagare su questi fatti potrebbe essere offrire un ottimo spunto per il suo nuovo romanzo. A questo seguiranno misteri, indagini, altri omicidi, rivelazioni pericolose e tanto sangue di pollo. Gabriel scoprirà di portare sulle spalle ben più responsabilità di quanto pensasse. All’occhio indiscreto non sarà sfuggito un dettaglio. La storia che vi ho appena raccontato rientra perfettamente nei canoni del thriller/drama/giallo/poliziesco. A dire il vero Sins of the Father fu uno dei primi esempi videoludici d’un tale prodotto così ben confezionato. Oggi non sarebbe stato niente di nuovo, almeno sulla carta. Passiamo ad altro.
Gabriel e Grace…pixellosi.
I personaggi del gioco ci vengono presentati già dai primi minuti. Tralasciamo per un attimo Gabriel (capiremo fin da subito essere un piacente playboy squattrinato, furbo come una faina e costantemente in cerca d’avventure). Al suo fianco troveremo tipi interessanti come Grace Nakimura, assistente del protagonista e dipendente del St George’s. Non ci dimentichiamo poi di Mosely, detective della polizia e nostro amicone di vecchia data (grassoccio eppure piuttosto solerte al suo dovere) o del Dr John, un uomo di colore proprietario dell’unico museo sulla cultura Voodoo della zona. Non mancano nemmeno personaggi secondari come Madame Cazanoux, una vecchietta bigotta uber-cattolica accompagnata dal suo cane Castro, Gerde, una gentile e sommessa maid tedesca o Malia Gedde, una ricca e bellissima aristocratica piena di segreti. Credo di non scherzare quando dico che l’intero cast del titolo è talmente interessante, iconico e ben scritto da avermi lasciato senza fiato. Tempo fa un mio amico, mentre recensiva un videogioco (non faccio nomi), disse:
“L’approfondimento psicologico e la caratterizzazione dei personaggi è a un tale livello che persino gli spazzini ne possiedono una briciola”.
Nuovi indizi ogni giorno.
Ecco, questa frase è perfetta per definire i personaggi di Sins of the Fathers. Tutti sono ben scritti, tutti ti lasciano qualcosa. Come se non bastasse nel cast è presente anche uno spazzino (un custode di un cimitero per la precisione), quindi siamo decisamente messi bene.
Il merito di questo “approfondimento” va soprattutto ai dialoghi del gioco che sono stupendamente scritti, sia che si tratti di frasette ottenute curiosando in giro (apri Gabriel, usa Grace e soprattutto prendi Gabriel), sia con dialoghi tra i personaggi. Grande importanza nel gioco viene data alle discussioni e agli interrogatori con le altre persone. Vi sarà possibile, selezionando l’opzione giusta, aprire una schermata specifica in cui poter porre tantissime domande ai vostri interlocutori. Qui potrete selezionare qualunque parola chiave ottenuta durante la partita, ma non solo! In certi casi sarà possibile anche porre domande più personali che sfoceranno in una “Just tell me anything” a cui gli interrogati risponderanno con informazioni riguardo la loro vita privata o il loro passato, per la gran parte non legate alla vostra indagine. Un ottimo modo per dare ancora più carattere ai personaggi (ha un’accezione del tipo “ecco di cosa parla normalmente questo personaggio”).
Due icone per parlare erano necessarie?Adorerete i dialoghi secondari.
Altro grosso pollice in su va al doppiaggio. Premetto che del gioco esistono, ad oggi, tre versioni. La prima è quella su floppy disk, di qualche megabyte. La seconda, quella CD, è sui 300 megabyte (venduta anche da Gog.com). Infine di recente è uscito il sopracitato remake per il ventesimo anniversario del gioco. Per ora consiglio decisamente la versione originale CD, sia perchè sono allergico ai remake (colpa del cinema di Hollywood) e soprattutto poichè è presente un doppiaggio integrale in inglese non presente nella versione floppy (e sostituito nell’ultima versione). I doppiatori tra l’altro non sono certo sconosciuti, appena li elencherò sono certo che qualcuno mi invierà via mail urla di piacere (88migliasoniche@gmail.com vi aspetto!). Nel cast abbiamo nomi importanti come Mark Hamill (Luke Skywalker/Joker in qualunque Batman immaginabile), Leah Remini, Efrem Zimbalist Jr. (ovvero Alfred della serie animata di Batman), Michael Dorn (Star Trek – The Next Generation), Leilani Jones, Jim Cummings (troppa roba da citare) e soprattutto l’unico e inimitabile Tim Curry nei panni dello stesso Gabriel Knight. Vi lascio qualche minuto per assorbire il colpo.
NB: a chi interessassero ai retroscena di questo doppiaggio, consiglio questo making of.
Tim Curry, il più sexy del pianeta.
A controbilanciare l’ottimo lavoro dei doppiatori vi sono due cose. Anzitutto, per quanto adori Curry come attore, il suo fintissimo accento New-Orleans-Style è talmente fintamente finto da essere diventata una gag ricorrente tra i fan del gioco. Inoltre non si può evitare di citare Virginia Capers, la voce della narratrice. In pratica, ogni volta che analizzeremo qualcosa, partiranno commenti da parte di una voce esterna. L’idea non è affatto male, tuttavia non credo di aver mai sentito una narratrice più annoiata e soporifera di lei. Sembra quasi che in ogni momento si stia preparando a parlare della recente morte del suo cane. Non ho nulla contro la doppiatrice (che comunque ha una voce stupenda, bassa e versatile) piuttosto non riesco a capire il perchè del tono di voce sommesso che userà per tutto il gioco. Ascoltate e fatemi sapere quanto resistete prima di disattivarla. Io sono arrivato a 5 minuti.
Un sacrificio Voodoo a stomaco vuoto.
A livello di meccaniche Sins of the Fathers si presenta come una semplice avventura punta e clicca in terza persona. Data l’interfaccia di gioco lo si potrebbe definire come un compromesso tra i vecchi prodotti Sierra (che permettevano la digitazione tramite tastiera dei comandi) e quelle LucasFilm (che con i verbi dello Scumm, avevano reso più approcciabile il genere). In questo caso il gioco opta per una serie di 8 icone, ognuna rappresentante un verbo diverso: vai, osserva, prendi, apri, usa, muovi, parla, interroga. Oltre a questo segnalo la presenza di un inventario (con le sue icone) e di un registratore (che ci permetterà di riascoltare i dialoghi più importanti battuta per battuta). Inoltre come ogni titolo Sierra che si rispetti, sono presenti le opzioni che vi aiuteranno a regolare volume di suoni, musica, sottotitoli e velocità della partita.
I gameover sono piuttosto circoscritti.
Il gioco ci darà fin da subito tante locazioni da visitare, alcune potrebbero essere utili adesso, altre più tardi. Avremo libertà assoluta. In effetti una delle feature più interessanti di Sins of the Fathers risiede nella sua struttura. Il gioco è diviso in dieci giornate, molte simili tra di loro. Per andare avanti di una giornata dovremo compiere determinate azioni specifiche. Una volta fatte, in automatico si passerà al giorno dopo. Ecco, alcuni compiti si possono svolgere prima o dopo. Inoltre visitare certi luoghi prima del tempo vi potrebbe dare informazioni secondarie che non riuscireste a ottenere altrimenti. Per dirne una, il museo Voodoo non dovreste visitarlo prima del secondo giorno. Se mai entraste durante la prima giornata troverete ad attendervi non il proprietario Dr John, bensì una sua impiegata. Tutto ciò dà la possibilità al giocatore, in qualche modo, di raccontare la storia a modo suo e di avere un’esperienza, se pur in minima parte, diversa da quella degli altri giocatori. Stessa cosa vale per i dialoghi del gioco. Potremo decidere in tutta libertà quali domande ritenere più opportuno evitare o chiedere tutto a tutti. L’unico limite, imposto da Sierra stessa, è il famoso conta punti che indicherà quanto avrete “completato il gioco”. Non sentitevi obbligati. Tutti noi abbiamo fatto quella partita dove abbiamo ottenuto 299 punti su 300.
Sgranato, ma sono tuttora d’impatto.
Anche le morti sono sempre state parte integrante del gameplay dei giochi Sierra. Nei vecchi King’s Quest, Leisure Suit Larry o Space Quest si poteva morire per ogni cosa (OGNI SINGOLA COSA) dal cadere in acqua e dimenticarsi di digitare “swim”, all’andare incontro ad un orso e ricevere un cartone in faccia, al fumare erba e sentirsi così leggeri da cadere in un burrone (non sto scherzando). Sins of the Fathers opta per un approccio decisamente più vicino ad un Maniac Mansion. Esistono 2-3 punti in cui sia possibile morire, tuttavia per la maggior parte sono evitabili (bisogna andersela a cerca in pratica). Inoltre solo in un caso, verso la fine del gioco, è presente una situazione “unwinnable” che vi costringerà a ricaricare qualche minuto prima. Ad ogni morte comunque avrete come premio Gabriel che vi dirà:
“Oh, I really don’t want to be dead. Can’t we try it again?”.
A questo proposito vorrei spendere due parole sugli enigmi. Al giorno d’oggi è raro vedere rompicapo così complessi, ben pensati e divertenti da risolvere. Ad esempio in un caso dovremo usare delle lettere in codice (tradotte) per scrivere un nuovo messaggio. In un altro dovremo raccogliere una serie di piastrelle, metterle al loro posto in 12 stanze diverse e capire quale azionare. In altri casi ci sarà bisogno di pensiero quadrimensionale, di intuito e di ragionamento. Raramente mi è capitato di essere completamente spiaggiato.
Toh! Il custode ci ha fatto visita.
Graficamente parlando il titolo è, mi dispiace dirlo, abbastanza datato. La pixelart non è invecchiata bene come altri titoli dello stesso genere (come Monkey Island ad esempio). Ad oggi fa comunque il suo lavoro con sufficiente dignità. Le location che visiteremo invece sono davvero tante. Avremo a disposizione molte luoghi tipici di New Orleans, oltre che brevi sprazzi dell’estero come la Germania o l’Africa. Un dettaglio che ho trovato interessante riguarda la parte del gioco ambientata a New Orleans. Pare che molte schermate siano stato ottenute basandosi su luoghi reali nella città americana. La cattedrale di St Louis, la Jackson Square e così via. Non so voi, ma dopo avere finito il gioco mi è venuta una voglia matta di visitare la vera New Orleans.
Un monumento per Robert Holmes!
Menzione speciale anche per la colonna sonora. Sebbene sia composta al 100% da musica midi (il che vuol dire che in passato, in base alla scheda audio in uso, si ottenevano tracce completamente diverse) riesce ancora a regalare emozioni. A partire dal meraviglioso tema iniziale che sin dal primo momento vi entrerà in testa per il suo essere spezzettato eppur orecchiabile. Il tema della libreria, della casa di nonna Knight, il cimitero di St Louis #1, lo Schloss Ritter in Germania, la Napoleon House…tutti temi che meritano un bell’ascolto. Un grosso plauso a Robert Holmes, il compositore, che mi ha regalato ore di estasi uditiva se pur con pochi mezzi.
Come avrete già capito Gabriel Knight: Sins of the Fathers è un titolone, un vero capolavoro, un titolo che, nonostante i pochi difetti (che comunque sono presenti), riesce a offrire una qualità incredibile passati i vent’anni d’età. Ci terrei, prima di lasciarvi, a dire due parole sul perchè GK a conti fatti sia ancora più importante di quanto si pensi.
Non vedo l’ora di recensire il secondo capitolo.
Al giorno d’oggi si parla molto di storie e sceneggiature nel mondo dei videogiochi. Ci si è resi contro che il medium videoludico, possedendo il bonus dell’interattività, può offrire oltre che puro intrattenimento e immersività anche qualcosa di diverso, non migliore, bensì diverso. Negli ultimi anni sono spuntati fuori titoli più o meno riusciti che sono erano contornati da storie appassionanti. Parlo ad esempio di Portal 2, dell’indie The Binding of Isaac o a Alice Madness Returns. Si tratta di titoli che, oltre a divertire, hanno cercato di dire qualcosa di interessante o nuovo al giocatore. Giocando a Sins of the Fathers mi sono accorto di quanto questo titolo abbia influenzato in positivo l’industria. Magari non tutti se ne accorgeranno, ma sono certo che sia così. A conti fatti questo primo Gabriel knight non è solo un gioco, è il risultato della fusione tra un videogioco, un fumetto e un romanzo (come Max Payne). Un romanzo illustrato interattivo, se preferite. Un’opera che ti getta in una storia dettagliata, con personaggi altrettanto profondi, a volte grotteschi, che ti offre la massima libertà d’azione consentita. Si tratta di un titolo che dona una doccia di emozioni, con scrittura sopraffina, con grandi colpi di scena (quasi sempre), con enigmi stimolanti, bello da vedere (fino ad un certo punto) e un piacere da ascoltare. Ci sono tante altre cose che avrei potuto dire. Avrei potuto descrivere i rapporti coi personaggi, l’evoluzione di Gabriel stesso (lo Shattenjager) che parte come playboy stronzetto in cerca di redenzione. Avrei potuto parlare ulteriormente della storia, di come si noti molto la ricerca attuata da Jane Jensen sul Voodoo (a volte avremo l’impressione di star seguendo una lezione universitaria sulla cultura sudafricana) e su tutte le sue ramificazioni. L’impressione che ho avuto davanti Sins of the Fathers è stata la stessa che ho avuto quando per la prima volta scoprii un fumetto di Magnus. Un’opera a più strati, che funziona come semplice storia del bene contro il male, che funziona grazie ai suoi personaggi, che vive di dialoghi profondi e a tratti insensati e che nasconde dietro una scorza dura una delle migliori “esperienze” ante-litteram della storia dei videogiochi.
In breve, è un titolo che tutti dovrebbero giocare e che meriterebbe un posto d’onore tra i migliori giochi d’avventura e tra i migliori cento videogiochi si sempre.