Jerusalem di Alan Moore – Stradario per le Vie della Mente | Recensione

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Jerusalem

Worldbuilding: è il processo di costruzione di un mondo immaginario, a volte associato ad un intero universo fittizio. Più qualità come storia, geografia ed ecologia vengono sviluppate con cura, più il costrutto risultante sarà credibile e similare ad un mondo reale.
La costruzione di un mondo spesso implica anche la creazione di personaggi muniti di una propria storia. Essi, insieme ad altri elementi e retroscena, sono atti ad arricchire, giustificare e a dare più credibilità ad una qualche trama ambientata nel suddetto mondo.

Il primo ambito a cui riconduciamo il worldbuilding è senz’altro il gioco di ruolo. Ogni buon Dungeon Master avrà di certo imparato a sue spese che, padroneggiare l’arte del costruire un universo da zero, può fare la differenza tra una buona sessione a D&D e una serata passata a bere cola sottomarca scarabocchiando disegni osceni sulle schede personaggio.
Ma ben prima di divenire la parte integrante del capostipite di un immaginario diventato egemone, il worldbuilding era il già “punto zero creativo” dei generi letterari fantasy e sci-fi.

Jerusalem

Se l’idea di creare un intero mondo intorno ad una storia può sembrare così complessa da incutere timore, allora “Jerusalem” di Alan Moore andrebbe riclassificato come romanzo horror, benché l’autore utilizzi il sopracitato worldbuilding in modo diametralmente opposto com’è stato poc’anzi descritto. Ma cos’è Jerusalem?

Nato da più di dieci anni di studio e ricerca, Jerusalem è un mastodontico romanzo composta da più di millecinquecento pagine per un totale (a detta di Moore) di un milione di parole. Ciò piazzerebbe l’ultima opera del Bardo di Northampton al primo posto sul podio dei romanzi più lunghi, seguito da “Clarissa” di Samuel Richardson, un “fermaporta” di circa 970,000 parole e dalla “Bibbia” che invece ne annovera “solamente” 800,000.

Jerusalem è in realtà suddiviso in tre tomi differenti: “Boroughs“,”Mansoul“e “L’inchiesta dei Vernall“. Di questi, i primi due ricoprono perlopiù la funzione di un “worldbuilding rovesciato”. Moore infatti utilizza un mondo preesistente (il nostro) unitamente a personaggi, contesti storici ed altri elementi scelti ad hoc, per giustificare e spiegare l’esistenza di quella che potremmo sommariamente definire come una dimensione parallela. Tuttavia, l’idea alla base di Jerusalem è qualcosa di infinitamente più complesso di quanto si possa immaginare.

L’incipit è in realtà abbastanza lineare e affine agli scritti di altri autori che, prima di Moore, si sono interessati al concetto di “dimensione parallela”, uno tra tutti: Philip K. Dick.
Alma Warren è un’eccentrica artista il cui fratello, Michael, rischiò di morire soffocato all’età di tre anni, per colpa di una caramella rimastagli incastrata in gola.
Molti anni dopo, il ricordo dell’esperienza di pre-morte riemerge nella mente di Warry (soprannome che Alma appioppò a Micheal in tenera età), a causa di un infortunio sul lavoro.

Il ricordo del traumatico e miracoloso risveglio, dopo ben dieci minuti di totale incoscienza, tormenta Micheal al punto da fargli temere per la propria sanità mentale. Le paure di Warry sono inoltre fomentate dal fatto che la perdita di senno sembra essere una tradizione di famiglia, risalente fino al suo trisavolo Ernest Vernall.

Alma, per nulla scossa dai timori di Michael, sfrutta i ricordi onirici del fratello come ispirazione per una serie di dipinti. La notte del vernissage, varie e variegate vite si intrecceranno lungo la via che porta al distretto di Northampton dove è sita la galleria d’arte: i Boroughs.
C’è una prostituta dipendente dall’eroina alla ricerca di un cliente, un poeta girovago con un ghigno da ubriaco stampato in volto, un ragazzo tanto disorientato quanto ubriaco,…

Alma e Micheal, di fatto, sono scrittore e disegnatrice di quella che, pur non avendo un effettivo supporto grafico, è una cronaca meta-fumettistica interna al romanzo. Più Jerusalem procede, più risulta evidente che la loro storia nella storia, così come quella di tutti gli altri personaggi, è un mero pretesto per raccontare qualcosa di più complesso e meno aderente al piano d’esistenza di cui il romanzo e il lettore fanno parte…

Similarmente a Nabokov in “Fuoco Pallido“, anche Moore cambia spesso lo stile narrativo di Jerusalem. Tale espediente, associato alla particolarità dei soggetti e dei temi trattati in ogni capitolo, fungono da scheletro per la Frankenstein-iana creazione di Alan Moore.

JerusalemLo stile narrativo non è tuttavia l’unico elemento dinamico di questa mastodontica opera letteraria. I diversi registri e le differenti lingue usate da Moore, rappresentano la parte fondamentale per la comprensione della cosmologia di Jerusalem. Personaggi e situazioni, così differenti tra loro, sono dunque una mera scusa per passare dall’Old English allo slang sgrammaticato “da strada”, passando per elocuzioni in stile vittoriano fino ad arrivare ad una lingua inventata ad uopo.
Nel linguaggio del piano di sopra non vi sono infatti coniugazioni o verbi che tengano conto del tempo. Ciò è dovuto al fatto che, similarmente ad idee espresse in alcuni romanzi di Kurt Vonnegut, il tempo non esiste in quanto traiettoria rettilinea. Il che implica l’assenza del concetto di passato e futuro, sostituiti dall’idea di esistenza legata al momento attuale, che racchiude in sé ciò che è già accaduto e ciò che accadrà o che potrebbe accadere.
Altra caratteristica molto evidente del linguaggio usato da Moore in Jerusalem è l’iper-descrittività. Nulla è lasciato al caso o all’immaginazione: ogni dettaglio o tonalità di colore è descritto nei minimi particolari, restituendo al lettore una perfetta diapositiva della scena corrente.

Controcultura, lotta di classe, esoterismo sono tutti concetti che Moore esplora attraverso un viaggio lessicale, sociale e temporale lungo mille anni di storia. Jerusalem è dunque anche un romanzo politico, incentrato sui soprusi commessi dal sistema capitalistico verso il cittadino medio e del biasimo rivolto ai movimenti underground che tentano di sublimare il disagio sociale e mentale in sfoghi artistico-alternativi.

La sopracitata controcultura è l’effettivo perno dell’intero romanzo. Pur muovendosi in un panorama letterario ricco e linguisticamente complesso, Alan Moore si è sempre affermato come autore sui generis, aborrendo qualunque riferimento accademico o intellettualistico. Per tanto, a permeare l’intera struttura di Jerusalem, vi sono l’occultismo, la musica underground, svariati riferimenti ai deliri onirici suscitati dall’uso di stupefacenti e altri temi ricorrenti delle opere del Bardo di Northampton.

Dunque: passioni, convinzioni e ossessioni dell’autore si mescolano con la storia di Northampton e dei suoi abitanti. Le vite e le vicissitudini di personaggi sia storici (tra cui Samuel Beckett, James Joyce, Albert Einstein) che fittizi si susseguono ed intrecciano nella storia di questa città Inglese, dal medioevo all’età moderna, creando un microcosmo che si espande fino alla quarta dimensione: il tempo.
Ed è proprio il tempo, a differenza delle altre tre dimensioni (più facilmente percepibili dal lettore) a rappresentare nel contempo sia il mezzo attraverso il quale inquadrare il focus dell’intera epopea, sia un concetto che il lettore dovrà imparare vedere in modo nuovo.

Ciò che viene descritto in Jerusalem trascende una qualunque idea riconducibile ad un worldbiulding di stampo classico. Invece di concentrarsi su differenze percettibili come tangibili e visibili, Moore ha creato un piano di esistenza che coesiste con il nostro, ma fatto interamente di pura percezione e sensazione.
Più simile all’Oltreverso Lovecraft-iano che ad un’ordinaria idea di aldilà, il “piano di sopra” (upstairs) di Alan Moore NON è una vera e propria dimensione parallela, bensì, è la consapevolezza dell’esistenza di altre dimensioni oltre a quella fisica.

Jerusalem

Il piano di sopra convive con il nostro tempo e il nostro spazio, ma è percepibile solo dopo la morte. Una volta trapassati, impariamo a vedere l’intera esistenza da una prospettiva radicalmente nuova, come una cassetta degli attrezzi di cui vengono aperti tutti i vani e cassetti, ma che inizialmente noi vedevamo solo come un contenitore chiuso. Lo stesso Moore, per meglio spiegare questo concetto, fa dei rimandi diretti a “Flatlandia” di Edwin A. Abbott, dove l’idea del cambiamento di percezione sensoriale è connessa allo “scomporre” il prossimo nelle figure più semplici che lo compongono (per chi non lo sapesse: Flatlandia narra la storia di un abitante di un ipotetico universo bidimensionale che entra in contatto con l’abitante di un universo tridimensionale).
Per tanto, Non vi sono giudici ultraterreni che separano bene e male, non vi sono premi o condanne, c’è “solo” una nuova percezione dell’esistenza.

Quali sono dunque le conclusioni che possono essere tratte dalla lettura di Jerusalem? Indubbiamente questo è un romanzo che si auto-descrive, in quanto Alan Moore ha evidentemente manifestato la volontà di infondere in esso se stesso e le sue idee.
Jerusalem per tanto è più una “Bibbia di Moore” che un “semplice” romanzo weird fiction. Ciò, unito alla prolissità e alla complessità del tomo, di certo rendono Jerusalem non adatto a tutti. Il che, di per sé, può non rappresentare per forza un difetto, dato che Moore è un autore che, a seconda dell’opera presa in esame, attira una differenza branca di lettori. In sostanza, se avete amato “Watchmen” potreste non amare Jerusalem, ma ovviamente nessuno vi obbligherà a comprarlo.

Ma se ciò che vi impedisce di comprare la magnum opus del Bardo di Northampton è la paura del non riuscire a giungere all’ultima pagina, a causa della sua voluminosità… Beh, sappiate che leggendolo capirete quanto sia stupido preoccuparsi di una frivolezza come lo scorrere del tempo…


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