[Recensione] Il Diritto di Contare – I veri eroi nell’ombra

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Lo ammetto, sarà una mia debolezza ma non ho un grande amore per i “biopic”, ovvero quelle pellicole che si propongono di ri-raccontare sul grande schermo (a mò di biografia) fatti realmente accaduti. Sia chiaro, ho le mie motivazioni per tale avversione. Ad esempio sono fermamente convinto, finora non ho trovato conferme contrarie, che ben poche persone riescano a tirare fuori, da un fatto di cronaca recente o da una figura storica, un prodotto degno di nota o artisticamente valido.
Non sono nemmeno mancati i vari tentativi.

Hidden Figures
Salve a tutti, gente!

 

C’è chi prova a ricamare sulle vicende, magari rendendole più “piccanti” o “succose” tramite le cosiddette “parti romanzate” (gergo tecnico per definire le frottole). Il tipo di cambiamenti che trasforma un semplice dialogo, un piccolo gesto d’affetto come un bacio sulla guancia alla soglia della porta di casa tua, in una corsa forsennata per arrivare ad un aeroporto qualsiasi e plagiare una buona dose delle commedie romantiche più famose di sempre. Il tipo di modifiche che cerca spudoratamente di tirare fuori dallo spettatore delle lacrime facili ed emozioni fin troppo spicciole. Ma questa non è certo l’unica metodologia utilizzata nel cinema per i biopic. Esistono anche pellicole che fanno della ricerca profonda e della documentazione pignola il proprio vanto. Film che vogliono con tutto il cuore ricreare ogni singolo evento così come sia avvenuto nella realtà, senza metterci bocca, quasi come un documentario in diretta.

Tuttavia che l’obbiettivo di un film biografico sia raccontare una storia vera o modificarla per renderla più “cinematografica”, il punto di partenza è sempre lo stesso: pochi lo sanno fare bene.

Tranquilli, non mi sono scordato di lui.

Comunque ci sono autori che, in passato, sono riusciti a creare opere non solo interessanti, ma veri e propri capolavori, partendo da tali basi. Qualche esempio? Bronson di Nicolas Winding Refn, Amadeus di Miloš Forman (noto per la sua alta infedeltà storica), colossal come Gandhi o Laurence D’Arabia sono i primi esempi che mi vengono in mente. Tutti casi in cui registi, con veri e propri attributi cubici, sono riusciti, tramite grande perizia, a trasmettere emozioni, concetti e tanto altro, riuscendo a ri-raccontare al meglio vicende già entrate nel nostro immaginario collettivo.

Oggi, lo avrete già capito, si parla di un biopic. Un’opera uscita l’anno scorso, che ha fatto molto parlare di sé, e che ad oggi ha la possibilità di vincere un buon numero di Oscar.
Parliamo quindi di alcune famigerate “Figure Nascoste”.

Hidden Figures (o “Il diritto di Contare”, come è stato adattato in italiano) è un film del 2016 diretto da Theodore Melfi, regista già autore di un paio di pellicole (di cui una con protagonista Bill Murray) e diversi cortometraggi. La pellicola (qui è meglio essere diretti) racconta una pagina zuccherosamente agrodolce della storia americana, come molte altre opere in passato hanno già fatto (qualcuno ha detto 12 Anni Schiavo?). In particolare mi riferisco alla storia di tre donne: Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson. Tutte e tre scienziate, negli anni 60, impiegate della NASA e a loro modo indispensabili nel progetto che portò l’astronauta John Glenn a diventare il primo americano a orbitare intorno alla terra.
Inutile che vi spieghi quanto fosse per loro difficile la vita in quell’epoca…essendo donne…e di colore. Già.

Hidden Figures ha sulle spalle il compito, particolarmente arduo, di raccontare tale vicenda (una tappa fondamentale nella corsa allo spazio degli anni ’60) e, allo stesso tempo, mettere in luce il ruolo fondamentale che persone come la Johnson, la Vaughan e la Jackson abbiano avuto nello svolgimento di tale missione. In pratica, come lo stesso titolo dell’opera suggerisce, si vuole dare lustro alle persone che, sebbene incredibili meriti accumulati, non vengano ricordate nei libri di storia e di conseguenza dai posteri.
Sulla carta è senz’altro una scelta lodevole.
Detto questo, ricordando il discorso sui biopic fatto all’inizio dell’articolo, poniamoci una domanda: che tipo di biopic è Hidden Figures e quali sono le fonti da esso utilizzate?

La risposta è tempestiva ma semplice. La pellicola prende spunto e adatta, in buona parte, l’omonimo libro “Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race”  fuoriuscito dalla mente e dalle ricerche storiche compiute dalla scrittrice Margot Lee Shetterly. Tuttavia, bisogna essere sinceri, l’opera cartacea, per quanto storicamente ricercatissima e precisa, viene presa come semplice spunto per la pellicola.
In poche parole, ci troviamo dinnanzi ad un film che, pur essendo basato su fatti realmente accaduti, presenta un certo numero di modifiche ad-hoc. Il tutto per rendere più “cinematografica” la vicenda.
Se qualcuno tra voi fosse interessato a quanto di vero o meno sia ci sia nella pellicola, non posso che consigliare questo articolo  in inglese che vi spiegherà tutto il necessario.
Ma passiamo ad altro.

Storia a parte, uno dei selling point principali dell’opera è senz’altro il mettere al centro di tutto un buon cast composto soprattutto da attori afro-americani. Lasciate che ve lo dica…dopo tutte le diatribe e le polemiche accadute lo scorso anno…è un toccasana. In particolare i volti usati per dare corpo e vita alle tre protagoniste non sono certo sconosciuti. Mi riferisco a Taraji P. Henson (Person of Interest, Il Curioso Caso di Benjamin Button o Empire), Octavia Spencer (Zootopia, The Help e Snowpiercer) e la cantante americana Janelle Monáe. Le loro interpretazioni, tutto considerato, sono buone, non eccezionali, e godibili. A contornare il trio di protagoniste sono presenti anche alcuni attori caucasici. Ad esempio l’ultranoto Kevin Costner, Jim Parsons (lo Sheldon Cooper di The Big Bang Theory) e Kirsten Dunst (Eternal Sunshine of the Spotless Mind e la trilogia di Spiderman). Trattandosi di attori già rodati da anni di recitazione (eccezion fatta per la Monáe), c’è ben poco da lamentarsi.

Tuttavia, per un motivo o per l’altro, il cuore di Hidden Figures risiede nella serie di temi trattati. So già che, anche solo leggendo i paragrafi precedenti, vi sarete fatti un’idea in merito. Magari credete che questo sia uno degli ennesimi filmetti drammatico-comico-volemosebbene-bellodenonna che ci ricorda quanto nella storia del mondo, oltre che ai giorni nostri, il razzismo e la discriminazione fossero sempre imperanti. Non che oggi sia tutto risolto, sia chiaro. Se avete pensato ciò, diciamo che avete ragione solo a metà.

Sebbene la pellicola parta effettivamente con questa intenzione, quella di mostrare quanto razzismo e sessismo siano tra le più stupidi invenzioni della razza umana (per riderci sopra e tanti saluti), quanto otteniamo durante la visione esula abbastanza da questi concetti, e non sono nemmeno sicuro che si tratti di un qualcosa di voluto.
Mi spiego meglio. Durante la pellicola mi è capitato di notare frecciate, più o meno dirette al mondo odierno (oltre che citazioni più o meno implicite a icone afroamericane come Rosa Parks). Ad esempio vi ricorderete quanto nel 2016 si sia parlato, in America, della suddivisione dei bagni tra persone cis-gender e trans-gender (se non conoscete la differenza, cercate pure su Google, io vi aspetto qui). Durante una scena del film, una serie di discorsi di Katherine Johnson si riferiscono al fatto che sia stupido e idiota mettere determinate restrizioni per i servizi sanitari:

“There are no colored bathrooms in this building, or any building outside the West Campus, which is half a mile away. Did you know that? I have to walk to Timbuktu just to relieve myself! And I can’t use one of the handy bikes. Picture that, Mr. Harrisson. My uniform, skirt below the knees and my heels. And simple necklace pearls. Well, I don’t own pearls. Lord knows you don’t pay the colored enough to afford pearls! And I work like a dog day and night, living on coffee from a pot none of you want to touch! So, excuse me if I have to go to the restroom a few times a day. “

Sheldon cova vendetta.

Secondariamente, in questo caso sono quasi certo che si tratti di una mia pippa mentale, trovo piuttosto interessante che, in un periodo in cui la stessa America, a seguito dell’elezione di Donald Trump, si stia chiudendo a riccio (con concetti come il “Muslim-Ban”) contro il resto del mondo, fuoriesca dal nulla, nel periodo natalizio, una pellicola che ci ricordi di un epoca in cui, forse con occhi da sognatori, guardavamo al cielo come un luogo nuovo e pieno di possibilità da esplorare.

La “quota bianca” del film.

Piccola nota, piuttosto a margine, per la colonna sonora e la regia. Anzitutto riguardo le musiche del film posso dire di essere rimasto ben poco colpito. Da un lato sono presenti alcune anonime tracce al pianoforte (è dai tempi di Forrest Gump che mi tocca sentirle di continuo), d’altro canto è piacevole sentire anche solo qualche pezzo blues un minimo decente. Diciamo che il proverbiale “compitino a casa” è stato fatto.

Registicamente parlando invece…niente di particolare. Durante la visione della pellicola non sono riuscito a trovare particolari dettagli, magari tracce artistiche, impronte di qualche tipo. Theodore Melfi non mette bocca agli eventi, si limita a, gergalmente parlando, portare il compito a casa, trattando l’opera come un semplice film su commissione (per quanto figuri tra gli sceneggiatori). Semplicemente, sarebbe potuto essere diretto da molti altri registi allo stesso modo e, probabilmente, nessuno tra noi avrebbe notato la differenza.

Un bel tributo

L’ultimo punto che vorrei trattare, in realtà, è qualcosa che mi ha piuttosto scocciato a livello personale. Ho citato, qualche paragrafo addietro, la presenza nella pellicola di attori caucasici piuttosto famosi (Kevin Costner, Kirsten Dunst e Jim Parsons). Dopo una breve ricerca, ho scoperto che i personaggi da loro interpretati sono frutto di fantasia. Dopo breve riflessione ho compreso il motivo della loro aggiunta nella vicenda. Ad esempio Jim Parsons, e il suo personaggio Paul Stafford, serve come una specie di figura da demonizzare. Si tratta di personaggi tipicamente bigotti, o comunque complici nei confronti di certe discriminazioni razzio-sessiste, e che hanno il compito di “redimersi”, in qualche bislacco tentativo di rendere più palese possibile un messaggio anti-razzista.
Per quanto io apprezzi il tentativo, in qualità di spettatore, non posso che sentirmi trattato come un bambino stupido. Quasi come se gli sceneggiatori volessero distruggere quel poco di finezza e critica colta che si era andata creando durante la vicenda per poi scambiarla con una serie di messaggi da inserire a martellate nei cervelli del pubblico.
Vi offro quindi un piccolo suggerimento:

“Evitate di ripetere all’infinito una stessa lezione e preoccupatevi di lasciar dubbi e far riflettere chi vi guarda”

Detto questo, passiamo quindi alle conclusioni.

Hidden Figures, pur essendo un biopic sui generis piuttosto classico e senza particolari meriti, riesce a intrattenere per un paio d’ore. Si tratta di una pellicola a tratti fin troppo sempliciotta e prevedibile e in altri più sottile e interessante. Date le scelte di cast e di genere, non mi stupisco della nomination ottenuta dall’Academy. Tuttavia, e credo di parlare a nome di molti, non credo meriterebbe particolari premi…se non per l’arduo compito di gettare luce sugli eroi oscuri e silenziosi che la storia ha visto nascere e morire senza riconoscimento.