Eccoci di nuovo, sempre qui su Redcapes, sempre su Netflix, sempre negli anni 80. Torna finalmente Stranger Things, la serie che entrata dritta dritta nell’Olimpo delle serie più amate in assoluto, nonchè una delle più seguite nel panorama Netflix mondiale. La seconda stagione è riuscita a mantenere lo standard alto? D’altronde, a produrre le prima stagione sono bravi tutti!
Scherzi a parte, la prima stagione inevitabilmente ha settato l’asticella qualitativa della serie ad un punto molto alto, e lungo tutto il 2016 Stranger Things non è stata l’unica ad aver avuto un esordio esplosivo, Westworld tanto per citarne una, ma anche ad esempio Atlanta, The Crown, Dirk Gently e (a modo suo) The OA, tutti nuovi prodotti Netflix e non che hanno introdotto nel mondo televisivo un livello, e di conseguenza un’aspettativa, davvero difficile da eguagliare o migliorare. Torniamo per un secondo alla domanda fondamentale: La seconda stagione è riuscita a mantenere lo standard alto? La risposta sembra essere Nì.
Dalla citazione allo spirito anni ’80
Togliamoci subito la parte di cui in questo caso è più facile parlare, il lato tecnico. Dal punto di vista visivo fotografia, regia e montaggio rimangono pulitissimi ed estremamente leggibili anche nelle scene più concitate: una base solida che rimane estremamente funzionale ad alcuni piani sequenza ben pensati e molto, forse troppo, misurati, e tutti riferiti al Sottosopra – potete ben immaginare quanto il mix di un’ottima ripresa e di una CGI sopra la media nonostante il budget possano rendere una scena degna di nota (qualche jumpscare di troppo e qualche aumento di tensione un po’ gratuito, ma che dimentichi il secondo dopo averli visti). Lo stesso appunto per gli effetti speciali, sempre funzionali, mai troppo spinti e sempre cadenzati alla necessità, ben utilizzati anche in scene particolarmente scomode, come ad esempio la fuga di Will all’interno della scuola-Sottosopra. Le musiche si confermano di livello altissimo, sia la OST originale, sempre fantastica, che le canzoni di altri gruppi, la cui selezione stavolta è caduta su una playlist Metal, quindi Ted Nugent, Metallica e Motley Crüe, invece che su pezzi New Wave e Post-Rock a cui eravamo abituati.
Dal punto di vista attoriale anche qui, nulla da sindacare: tutto il cast si cala ancora una volta nella parte e assolve il proprio compito senza neanche troppo sforzo. Sebbene gli attori non abbiano avuto problemi, ci sono alcune piccole “stranezze” nel comportamento dei personaggi rispetto alla prima serie che a primo impatto possono sembrare poco coerenti, ma che in realtà vanno ad approfondire i caratteri di ognuno svelando lati nascosti, uno su tutti Hop The Cop Jim Hopper, interpretato da David Harbour, che da poliziotto burbero diventa ballerino e, soprattutto, padre. Per quanto riguarda i nuovi personaggi introdotti abbiamo Bob, un po’ macchiettato ma con una buona interpretazione di Sean Astin a cui ci si affeziona da subito; Max, (Sadie Sink) che insieme al Dr. Owens (Paul Reiser) si inseriscono nella storia creando scompiglio e lasciando a loro modo un’identità definita, ma che non creano quell’alchimia che avevamo alla fine della prima stagione, e Billy (il Red Ranger Dacre Montgomery) il bullo, che introdurrà poi la critica a questa seconda serie: Billy è un personaggio al 100% stereotipato, utilizzato in un modo altrettanto clichè, telefonatissimo dal primo secondo in cui ha fatto la propria comparsa e terribilmente scontato nel suo epilogo. Tutto sommato però i rapporti tra i personaggi si mantengono sullo stesso andazzo della prima stagione variando, com’è giusto che sia, di poco: le relazioni di sangue ne escono rafforzate alla fine di entrambe le stagioni, e le vecchie e nuove coppie non creano particolari fastidi. Tanto per riportare uno dei parallelismi fatti nella recensione della prima stagione, Non è come in Twin Peaks, in cui le vicende dei concittadini erano spesso poste allo stesso livello della trama soprannaturale, in Stranger Things vengono lasciate ai loro 5 minuti per episodio senza crear distrazione e lasciando anzi buon cibo per chi apprezza le relazioni amorose.
Prima di buttarci a palla di cannone nella critica finale ed aprire l’argomento della sceneggiatura, vogliamo dedicare un’ultimo paragrafo al rapporto fabula/intreccio e alla struttura degli episodi. Il ritmo è leggermente sopra la media, parliamo di eventi che necessitano di una narrazione dettagliata compressi in 9 puntate, di cui le prime due utilizzate come ponte tra le due stagioni per definire ciò che è accaduto ai personaggi, Eleven su tutti. Potremmo dividere la serie in tre grandi blocchi, in cui la seconda parte è dedicata alla scoperta dell’intrigo e delle origini di Elle, e la parte finale, in cui il tutto di base si risolve esattamente come nella prima stagione. Il calo più grande per noi è nel settimo episodio, in cui la serie cambia momentaneamente atmosfera, concludendo un arco narrativo incentrato su Elle utile solo ai fini dello scontro finale, ma che, a mio avviso, pecca di maturità. Nel prossimo paragrafo, finalmente, vi spiego il perchè.
Parliamo quindi di ciò che ha afflitto questa seconda stagione e che secondo noi, la rende inferiore, seppur di poco, alla prima. Partiamo dal titolo del capitolo, che fino ad ora non abbiamo ancora richiamato: in questa stagione scompaiono quasi totalmente le citazioni al mondo cinematografico anni ’80 che tanto abbiamo amato nella season one, mossa che da un punto di vista oggettivo non può che risultare azzeccata, in questo modo evita di risultare stucchevole, pesante. Il problema, grosso, è che se nella prima stagione avevamo una buona trama odierna in veste eighties, ora quasi tutte le soluzioni narrative utilizzate sembrano prese di sana pianta da una sceneggiatura qualsiasi pre-Terminator, quando inizia la fase machista tutta muscoli e fucili giganti dello sci-fi. Il bullo inutile ai fini della trama che ricorda tantissimo quell’Henry Bowers di IT (e che secondo noi di RedCapes avrà un risvolto importantissimo nella seconda parte, ed è quello che noi definiremmo un utilizzo intelligente di un clichè altrimenti trito e ritrito), la fatica che si fa nonostante la voglia estrema dello spettatore di mantenere il velo di sospensione dell’incredulità, il “villain” della stagione che si scopre essere il comandante di una schiera di ciò che nella prima stagione sembrava il Male Assoluto e la sconfitta di un eroe con il potere upgradato manco fossimo in Dragonball Z. Siamo davanti, com’è successo ad esempio anche in Supernatural, ad un’estrema banalizzazione di un intero mondo paranormale.
Precisiamo, come tutte le serie sci-fi, Stranger Things si pone davanti a due diverse tipologie di pubblico, il primo, che apprezza il citazionismo, quella vena nerd che non guasta mai e delle storie di buon livello per puro intrattenimento, e da questo punto di vista ST regala soddisfazioni pur non rendendola memorabile ed iconica come lo è stata la prima stagione; ma la seconda fetta di pubblico è quella appassionata di sci-fi, di fantastico e di horror che avrebbe desiderato uno sviluppo più maturo e poggiato su basi letterarie, che in questa seconda stagione rimane perlopiù a bocca asciutta. Non riusciamo a capire se i Duffer Bros, showrunner della serie, abbiano effettivamente raggiunto un limite creativo, cosa che personalmente non credo, o se abbiano optato per un lavoro più prudente e per il largo pubblico piuttosto che osare con un prodotto artisticamente più valido.
Vi faccio un paragone per presentare meglio il concetto: la prima serie di ST è paragonabile per molti concetti al primo Alien, entrambe le opere sono basate sulla paura ancestrale, l’ignoto, il terrore claustrofobico e nello stesso tempo agorafobico espresso al 100% dalla frase “nello spazio nessuno può sentirti urlare“, l’uomo contro il predatore definitivo. La seconda serie invece è sulla stessa lunghezza di Aliens, il secondo capitolo della saga dello Xenomorfo, in cui il leitmotif principale è “vengono fuori dalle fottute pareti“, è giu di mitragliate. Estremamente divertente, senza dubbio, ma dal valore intrinseco meno efficace di prima.
Per farla breve, i Duffer hanno basato la loro opera sui capolavori degli anni ’80, dimenticandosi, se per sbaglio o meno non ci è dato saperlo, che quegli stessi film poggiavano le fondamenta sulle solidissime basi della letteratura dell’orrore a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, H.P. Lovecraft, Edgar Allan Poe, Clark Ashton Smith, ma anche scrittori contemporanei come lo stesso Stephen King. In qualche modo desideravamo uno svolgimento se vogliamo più pretenzioso e a dirla tutta neanche così inimmaginabile ma decisamente più soddisfacente, ossia un’opera antologica in più tempi e spazi le cui storie gravitassero intorno al mondo sottosopra, interconnettendosi lievemente tra di loro, un po’ come vediamo, per fare un esempio televisivo attuale, in Fargo.
Ad ogni modo, questa seconda serie di Stranger Things sì, ci ha fatto storcere il naso perché le aspettative erano davvero alte, ma quello che ci è stato mostrato rimane di un buonissimo livello per gli standard televisivi a cui siamo abituati soprattutto per la qualità visiva, rimaniamo comunque con il fiato sospeso per le avventure che attendono Elle, Will, Dustin, Mike e Lucas nella già annunciata terza stagione!