Umbrella Academy Volume 2 – Dallas di Gerard Way e Gabriel Bá | Recensione

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Umbrella Academy Dallas

Nonostante il grande apprezzamento da parte di pubblico e critica della prima miniserie di Umbrella Academy, La Suite Dell’Apocalisse, tanto per gli autori quanto per gli appassionati lettori fu una sorta di grande introduzione, una ricerca d’identità sia per i complessi protagonisti che per gli autori stessi, un’esperimento a fumetti dunque, che prendeva a piene mani da più influenze e aveva l’obbiettivo di mescolarle per creare non una somma di esse, ma bensì un qualcosa di assolutamente nuovo.

Dallas, questo il titolo del secondo volume, è invece considerabile, di fatto, il vero e proprio inizio delle vicende per i personaggi protagonisti dell’opera. La storia ha finalmente una sua identità ben definita, assolutamente folle e certamente poco lineare, ma proprio in virtù di ciò ben definita appunto e riconoscibile.

La storia inizia (e dipende in larga parte) da dove era finito il primo volume e ci presenta i membri dell’Academy stanchi e provati dopo lo scontro con Vanya. Il mondo e salvo e le vite dei nostri eroi sono apparentemente tornate tutte come prima, eccezion fatta per Numero 5. Numero 5, l’eterno bambino della sgangherata super-famiglia allargata di Gerard Way è il protagonista di questa miniserie che lo vedrà intento nello scappare dalla polizia temporale e al contempo (perdonate il gioco di parole) cercare di fermare la sua versione futura dall’uccidere l’allora Presidente degli Stati Uniti d’America: John Fitzgerald Kennedy.
Come ogni storia che funzioni bene ovviamente, attorno al protagonista e alle sue avventure ruotano personaggi e situazioni più o meno di secondo piano rispetto ad esso e nell’accezione particolare, in questo secondo volume di Umbrella Academy spiccano, oltre ai “fratelli” di Numero 5 anche gli agenti Hazel e Cha-Cha della Temps Aeternalis. Una coppia di assassini estremamente violenti, entrambi con mascherati da dei non meglio definiti personaggi dei cartoni animati dai colori vivaci.

Dopo un debutto esplosivo ed apprezzato da pubblico e critica, questa seconda miniserie di Umbrella Academy segna la maturazione artistica di Gerard Way, dimostrando di aver assimilato alla perfezione la poetica e gli insegnamenti di grandi autori come Grant MorrisonAlan MooreWarren Ellis Garth Ennis, riuscendo però a distaccarsene creando qualcosa di personale. Abbandonata la linearità del primo capitolo, Way si tuffa a capofitto nei viaggi temporali sfruttando sapientemente il potere di Numero 5, vero e proprio protagonista di questo secondo capitolo. La centralità di Numero 5, come già accaduto con Vanya nella prima serie, però non declassa a comprimari gli altri membri della squadra, che qui acquisiscono maggiore tridimensionalità caratteriale e psicologica. Come ne La Suite dell’Apocalisse, la storia inizia nel passato, presentandoci una missione di quando i membri dell’Umbrella Academy erano ancora dei bambini, missione che fa da ponte alle vicende di Dallas, in quanto assegnata al gruppo dallo stesso presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy. Sempre come nel capitolo precedente della serie, anche questa volta la “minaccia” da combattere è un membro del team, ovvero Numero 5, che cercherà di mettere i bastoni fra le ruote del se stesso del futuro, in una lotta che però non ruota attorno alla solito binomio tra bene e male, ma che cammina nel sottile filo tra giusto e sbagliato. Nel marasma generale, Way riesce anche a lavorare al world building della serie, andando a sviluppare sottotrame che troveranno sbocco nei prossimi capitoli, come quella di Tor Perseus, leader della Perseus Corporation, che ritroveremo nella terza miniserie, Hotel Oblivion – che Bao Publishing pubblicherà appena conclusa negli Stati Uniti.

Il lato artistico è affidato anche questa volta a Gabriel Bá, come anche ne “La Suite dell’Apocalisse” riesce a trasporre alla perfezione su carta tutte le idee di Way. Bá in quest’opera sfoggia uno stile Mignoleggiante, nota stilistica che negli anni a venire diverrà la norma per il disegnatore Brasiliano. Il lavoro sintesi risulta davvero strabiliante, le tavole sono molto scure ma per nulla pesanti, i neri vengono usati sapientemente per narrare e non per nascondere difetti strutturali del disegno. Lo storytelling è davvero molto libero e dinamico, aspetto fondamentale per la buona riuscita di un opera così carica e frenetica come questa. Squadra che vince non si cambia, dunque anche in questo volume i colori sono curati da uno dei più grandi coloristi di tutti i tempi, Dave Stewart, colorista di grandi disegnatori come Mike MignolaDarwyn CookeTim SaleGeof Darrow ed il nostro Matteo Scalera. Come sempre Stewart riesce a sposarsi alla perfezione con l’opera che va a colorare, donando la giusta atmosfera ad ogni scena, enfatizzando momenti cruciali della narrazione. 

L’edizione presentata da Bao Publishing è davvero ottima, al prezzo di 20 euro abbiamo un solido cartonato in formato Americano, ricco di contenuti extra, come i primi schizzi delle copertine, le fonti d’ispirazione per creare location, le prime idee sui nuovi personaggi,  ponendo l’accento sul procedimento di character design dei due killer psicopatici Hazel e Cha-Cha. L’albo inoltre contiene “Ovunque Ma Non Qui”, una storia breve di 8 pagine inizialmente pubblicata sul MySpace della Dark Horse, ambientata 13 anni nel passato, quando i membri del team erano ancora dei teenager, incentrata su Vanya e Diego (aka Kraken). Se nel primo volume avevamo l’introduzione scritta dal padre putativo di Gerard Way, Grant Morrison, in Dallas abbiamo quella di un’altro grande del comicdom mondiale, Neil Gaiman, mentre la post-fazione è realizzata dagli stessi Way e Bá. Rispetto all’edizione precedente della Magic Press, Bao non ha cambiato solamente il formato, ma anche la traduzione è stata completamente rifatta da zero, donandoci un’adattamento molto più fedele all’originale, curata in ogni minimo dettaglio da Leonardo Favia. Inseguito all’uscita di questo albo, la pubblicazione proseguirà nel corso del 2019 con Hotel Oblivion, albo ancora in corso negli Stati Uniti e dunque inedito in Italia.

È davvero difficile dire quale sia il miglior capitolo tra La Suite dell’Apocalisse e Dallas, poiché l’una compensa i “difetti” dell’altra, creando una saga in continua evoluzione e ricca di sperimentazione. Nella prima Way decide di realizzare una storia bella storia autoconclusiva, lineare, che riesce a far empatizzare lo spettatore con i protagonisti, ma che si basa su degli espedienti narrativi già visti, tutt’altro che originali; nella seconda invece si abbandona una profonda maturazione artistica di Way, che sveste la sua storia dei cliché del genere, enfatizzando tutti quei caratteri intintivi che qui diventano la base del fumetto, donando maggior carattere alla produzione. Una cosa è però certa, Umbrella Academy si conferma un progetto di alto livello, ben studiato e realizzato che, insieme a opere come Black Hammer di Jeff Lemire, rappresenta una piccola perla in un panorama supereroistico ormai da troppo tempo saturo e privo di carattere.

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