Giuseppe Avati, conosciuto da tutti con il nome di Pupi, fece una lunga esperienza da clarinettista presso la “Doctor Dixie Jazz Band” di Bologna e avrebbe potuto diventare un grande jazzista se non fosse subentrato un piccolo fenomeno che gli rubò il posto e la fama: Lucio Dalla. Una carriera stroncata quasi sul nascere e che portò Avati ad escogitare un piano per uccidere Dalla; come egli stesso racconta in una simpatica intervista di ormai dieci anni fa.
“Quando andammo a Barcellona in tour, meditai seriamente di gettarlo dalla Sagrada Familia di Barcellona. La fortuna volle che non riuscì ad ucciderlo e la mia vita cambiò definitivamente”.
L’approdo al cinema fu molto difficoltoso per il regista bolognese. Dopo il fallimento come clarinettista, trovò lavoro presso un’azienda di surgelati nella quale rimase quattro anni; fino a quando non vide al cinema “8½”, film capolavoro di Federico Fellini che lo condusse verso una nuova meta. Riuscì a trovare i soldi da un misterioso finanziatore per dirigere, assieme al fratello Antonio Avati, due piccole opere prime: “Balsamus, l’uomo di Satana” del 1968, e “Thomas e gli indemoniati” del 1970.
Scrive per Pier Paolo Pasolini la sceneggiatura del film “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, e nel 1976, dopo aver passato un periodo di ristrettezze economiche, riesce ad avere Ugo Tognazzi e Paolo Villaggio come protagonisti di “La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone”. Un’opera grottesca ed estremamente divertente, che dette la possibilità ad Avati di continuare questo mestiere, sulla scia del successo.
Nel 1976, esce il cult “La casa dalle finestre che ridono”. All’epoca ottenne un discreto successo ma, con gli anni, è diventato un vero e proprio punto di riferimento per il cinema giallo-horror italiano imbevuto di nostrano. Per molti, quest’opera, rappresentata, più che un punto di partenza, un punto di arrivo per Avati nel mondo dell’orrore; fatto di antiche credenze e mistiche leggende di paese. Successivamente passerà alla commedia e a film di caratura drammatica.
Stefano (Lino Capolicchio), un giovane restauratore, è incaricato da Solmi, il sindaco di un paese di provincia nella campagna emiliana, per intervenire sul restauro di uno strano dipinto che si trova all’interno di una chiesa non distante dal centro abitato. Si scopre che è stato Antonio, amico di Stefano, a permettergli di avere l’incarico. Il giovane si presenta immediatamente sul posto di lavoro e resta affascinato dall’affresco; raffigurante il martirio di San Sebastiano ad opera di Buono Legnani, defunto artista locale, la cui fama porta scompiglio e terrore tra le gente.
Farà la conoscenza di Coppola (Gianni Gavina) -tassista e ubriacone del posto che cela un gran segreto- e di altre persone del piccolo paese che gli consigliano vivamente di lasciar perdere quel quadro e andarsene via. Nel frattempo, delle misteriose telefonate anonime continuano a intimorire Stefano, obbligandolo a partire e a non toccare l’opera di Legnani. Perfino Don Orsi, il parroco della chiesa dove il protagonista deve portare avanti il lavoro di restauro, non è propenso a parlare del dipinto.
Qualche giorno più tardi, lo chiama Antonio per confessargli un segreto; la scoperta di una casa dalle finestre che ridono. Prima che Stefano possa raggiungerlo al suo appartamento, Antonio muore cadendo misteriosamente dalla finestra. Da quel momento, la stessa ombra che Stefano aveva giurato di aver visto in casa di Antonio, non lo lascerà più stare e farà di tutto pur di fermarlo. Quando viene a scoprire delle due sorelle di Buono Legnani, -donne malvagie, senza alcuna morale-, il mistero che avvolge il quadro si fa più intenso e ricco di indizi. Assieme a Francesca, una maestra di una scuola la vicino, Stefano si mette sulle tracce delle due donne e sulla tragica vicenda del Legnani. Man mano che il dipinto torna alla luce, vengono rievocate storie, luoghi e personaggi che dovevano restare celati per sempre.
Avati parte da una vecchia storiella usata dagli anziani per spaventare i bambini come spunto per il film; la leggenda del prete donna. Secondo Avati, e secondo voci del luogo, in un paesino non distante da Bologna, nella tomba di un prete era stato rinvenuto lo scheletro di una donna. Da questo fatto di cronaca al quanto strambo e buffo, il regista distorce completamente l’assonata campagna dell’Emilia e i suoi abitanti trasformandoli in una creatura grottesca dai mille volti e dagli infiniti misteri. Inoltre, riesce a fare della pianura un perfetto luogo da film dell’orrore, in cui la sconfinata visione di un paesaggio brullo e all’apparenza tranquillo, si scontra con le vicende narrate facendo della storia un mix tra realtà e finzione; portando lo spettatore ad un balzo continuo.
Una mezcla, come direbbero gli spagnoli, di ironia e tragedia, di giallo e soprannaturale che fa del film di Pupi Avati la colonna portante di un cinema diverso che vale la pena di vedere.