Marvel’s Jessica Jones: Stagione 3 – Il potere non rende Eroi | Recensione

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Marvel's Jessica Jones

Dopo quattro anni, sei serie e tredici stagioni, si conclude, con la terza ed ultima stagione di Marvel’s Jessica Jones, il sodalizio tra Marvel e Netflix che, tra alti e bassi, ha portato sul piccolo schermo gli eroi urbani newyorkesi della Casa delle Idee. Questo relativamente breve ma intenso viaggio si conclude con Jessica Jones, forse il personaggio psicologicamente più intrigante tra i cinque eroi: sicuramente Daredevil e Punisher sono state le due serie più avvincenti, ma Jessica è senza alcun dubbio il personaggio più complesso psicologicamente parlando.

Diversamente dalle serie di Iron Fist e Luke Cage, per i quali abbiamo saputo della cancellazione dopo la fine delle relative seconde stagioni, con trame ancora aperte, soprattutto nel caso di Danny, Jessica Jones è stata cancellata proprio durante le riprese, ben sapendo quindi che questa stagione sarebbe stata l’ultima: in questo modo la showrunner Melissa Rosenberg ha potuto, a differenza dei colleghi impegnati sulle altre serie, garantire una conclusione alle vicende di Jessica.

Nella prima stagione Jessica ci è stata presentata come una donna dotata di super forza, molto sicura di sè stessa e del proprio potenziale, ma riluttante nei confronti del resto del mondo, soprattutto per l’odio verso il termine eroina con cui spesso veniva etichettata. La prima stagione della serie è sicuramente la migliore, grazie soprattutto alla straordinaria performance di David Tennant nei panni di Kilgrave, storica nemesi della protagonista anche nei fumetti, che ha tenuto prigioniera per anni Jessica, controllandola mentalmente al fine di sfruttarla per i propri scopi. L’eliminazione di Kilgrave alla fine della prima stagione è stato sicuramente un errore grave: eliminata la principale minaccia della protagonista, la seconda stagione si è concentrata sulla famiglia, sul passato di Jessica, con il ritorno a sorpresa della madre della donna, potente come la figlia ma altamente squilibrata e sopraffatta dal potere: è proprio il personaggio, potenzialmente ottimo, della madre di Jessica, ad essere il vero punto debole della seconda stagione, poiché inserita e scritta troppo velocemente per poter permettere al pubblico di empatizzare con quest’ultima.

In questa terza ed ultima stagione, invece, Jessica dovrà dividersi su due principali filoni: da un lato dovrà ritrovare Trish, la sorellastra che nella scorsa stagione aveva coronato il proprio sogno di ottenere dei poteri per diventare un’eroina, salvo poi uccidere la madre e fuggire, e che anche in questa stagione si calerà nei panni di giustiziere. Dall’altro lato, Jessica dovrà affrontare Gregory Salinger, conosciuto nei fumetti col nome di Foolkiller ed interpretato da Jeremy Bobb, un sociopatico che uccide le persone per il semplice gusto di farlo, immortalandole nel momento di massima disperazione che arriva poco prima della morte, e che si concentra su Jessica, in quanto convinto che le persone con poteri siano “imbroglioni” poiché dotati di quel qualcosa in più che fornisce loro un vantaggio ingiusto sugli altri.

Questa terza stagione, come tutte le altre serie Marvel/Netflix, esclusa forse la prima di Daredevil, soffre il solito problema dato dall’elevato numero di episodi: uno show che sarebbe stato decisamente migliore se composto da dieci episodi, con una gestione migliore dei tempi, anziché dai canonici tredici. Il motivo è semplice: la stagione, dopo un valido primo episodio, vive un lungo periodo di noia, mista ad indifferenza, fino all’ottavo episodio, dove le vicende prendono finalmente una piega decisamente interessante. Gli episodi in tra il primo e l’ottavo servono a portare avanti le trame secondarie, come quella di Jeri Hogart, malata di SLA, e per caratterizzare Gregory Salinger, dipinto dapprima come un serial killer geniale alla Dexter, ma rivelatosi successivamente un sociopatico con manie di grandezza, con sporadici momenti macchiettistici. Di contro, il personaggio di Salinger, viene interpretato alla grande da Jeremy Bobb, già visto in Russian Doll, capace di dare spessore ad un personaggio dalla psiche complicata, mostrandone tutte le sfaccettature, nonostante lo stesso sia stato caratterizzato in maniera altalenante dal punto di vista della scrittura.

Il fulcro della stagione è l’idea dell’eroe, incarnato dal rapporto tra Jessica e Trish, due modi completamente differenti di interpretare l’eroe: da un lato Jessica, che non ha mai voluto i poteri e ha sempre odiato essere chiamata eroina, e dall’altro abbiamo Trish, che ha inseguito per due stagioni la sorella per poter diventare un’eroina, tanto da arrivare ad ottenerli, ma che intende l’essere un eroe come una punire chi sbaglia, dividendo il mondo in bianco e nero, in maniera totalmente differente rispetto alla sorella. Trish incarna l’idea della giustizia privata e sommaria, più vicina a personaggi come Punisher, una tematica molto attuale sia negli Stati Uniti che in altre parti del mondo, laddove Jessica incarna invece l’idea della giustizia legale, ed è forse, nonostante i modi di fare scurrili, volgari, indisponenti ed arroganti, un eroe nel senso più puro del termine, mentre la sorella, educata e perfetta in apparenza, cova una ferocia interiore che la consuma e ne tira fuori il lato peggiore.

La stagione offre un’evoluzione di tutti i personaggi, anche se in alcuni casi questa evoluzione è causa proprio dell’appesantimento della narrazione, di cui parlavamo precedentemente, dovuto ai troppi episodi: è chiaro che si sia cercato di chiudere le sottotrame per congiungerle con quella principale, ma il tutto genera più problemi alla fruizione della serie che altro, oltre ad alcuni errori in fase di scrittura. In particolare, oltre alla già citata evoluzione dei personaggi di contorno, un espediente usato nella seconda e nell’undicesima puntata, ovvero quello di narrare nuovamente quanto accaduto nella puntata precedente, ma dal punto di vista di un altro personaggio, ha avuto risultati estremamente diversi: nel caso del primo e secondo episodio questo stratagemma è stato decisamente pessimo ed inutile, poiché ha narrato eventi scontati e facilmente intuibile, mentre negli episodi dieci e undici ha funzionato decisamente meglio, perché utile a spiegarci la particolare evoluzione di uno dei personaggi principali, oltre a dare una svolta narrativa importante agli eventi.

L’evoluzione dei personaggi non va comunque solo vista come la causa dei rallentamenti narrativi di questa stagione, poiché offre anche diversi spunti positivi: per esempio, la crescita di Malcolm, personaggio che dalla prima stagione si è evoluto in maniera decisamente interessante e ben scritta, passando da semplice tossicodipendente sfruttato da Kilgrave a segretario di Jessica Jones fino ad arrivare, in questa stagione, ad essere uno dei collaboratori di spicco di Jeri Hogart. La stagione, nonostante sia l’ultima, inserisce anche dei nuovi volti, tra i quali spicca Erik, interpretato da Benjamin Walker, nella doppia veste di spalla e di interesse amoroso della protagonista: Erik infatti è ispirato al personaggio dei fumetti Marvel Mind-Wave, un individuo in grado di capire il grado di malvagità delle altre persone.

Jessica Jones

Uno dei peccati di questa stagione è il mancato sviluppo del tema dell’eroe che può essere anche vittima, lasciato nel dimenticatoio dopo essere stato appena abbozzato nei primi episodi, a favore del tema del dualismo tra le diverse visioni del concetto di eroe che, come detto in precedenza, è il tema portante di questa stagione. Il personaggio di Salinger, ispirato (anche se non viene mai menzionato) al Foolkiller/Insanicida dei fumetti, si rivela essere una brutta copia del celebre personaggio di Dexter Morgan, protagonista dell’omonima serie con Michael C. Hall, nel modus operandi, parzialmente nell’aspetto e, come già detto, viene nobilitato da un’ottima interpretazione di Jeremy Bobb, che tuttavia non basta a renderlo un villain incisivo come Kilgrave.

Dal punto di vista tecnico, abbiamo una recitazione di buon livello, con Jeremy Bobb che spicca sugli altri attori, ed in generale prove tutto sommato convincenti, con una buonissima Krysten Ritter nel ruolo di Jessica Jones, anche nei momenti di maggiore drammaticità e fragilità in cui la protagonista abbandona i modi rozzi che la contraddistinguono da sempre. La regia è nella media, e mantiene il trend delle prime due stagioni, soprattutto in alcuni spezzoni caratterizzati da una fotografia di livello che ci ricorda le felici scelte cromatiche della prima stagione; la colonna sonora, una via di mezzo tra Jazz e Blues, tipica dei film noir, genere a cui la serie deve molto in fatto d’ispirazione e ritmo.

In conclusione, questa terza stagione di Marvel’s Jessica Jones non è sicuramente perfetta, ma porta dignitosamente alla conclusione le vicende ed il percorso di Jessica; come già detto, con meno episodi ed un ritmo narrativo migliore, staremmo parlando decisamente meglio di questa conclusione delle vicende dell’eroina che odia essere definita tale. Sicuramente, il miglior finale tra quelli delle serie Marvel Netflix.