Mindhunter: Stagione 2 – Ritorno alle Scienze Comportamentali | Recensione

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Mindhunter

Dopo due anni di attesa, debutta la seconda stagione di Mindhunter composta da nove episodi che coprono un arco di tempo che va dal 1979 fino al 1981.

Holden Ford (Jonathan Groff) e Bill Tench (Holt McCallany) continuano ad intervistare vari criminali statunitensi con l’aiuto di Wendy Carr (Anna Torv), mentre il Bureau deve affrontare le pressioni nate in seguito alla nascita dell’unità di scienze comportamentali. In tutto questo caos arriva Ted Gunn (Michael Cerveris), nuovo capo dell’unità e figura di potere di Washington. Questa seconda stagione di Mindhunter copre, come già anticipato, gli anni che vanno dal 1979 al 1981 all’incirca, ed oltre alle interviste di criminali come Charles Manson (Damon Herriman), la serie ci porta ad Atlanta, che sta diventando lo scenario di un caso di omicidi seriali senza precedenti che vede come vittime tanti bambini di colore: l’etnia di questi bambini e la necessità di portare più turismo nella città terranno la polizia a freno dall’indagare su questi omicidi e creeranno non pochi problemi a Ford e Tench, intenti scoprire il colpevole.

MindhunterDavid Fincher è sempre stato molto prolifico con i thriller, e Mindhunter infatti non è solo un semplice lavoro per il regista e produttore, quanto una necessità che aveva sin da Zodiac di raccontare certe storie reali, non solo dal punto di vista condensato del cinema, ma volendo inserirci un approccio più televisivo. Il regista torna anche a dirigere 3 dei 9 degli episodi di questa nuova stagione, nella fattispecie i primi tre, in cui gli eventi riprendono da dove avevamo lasciato e ci ributtano nel mondo dell’Unità di scienze comportamentali con tutti i problemi burocratici e non. Questa seconda stagione, molto più della prima, vede il capo dell’unità come membro prominente: infatti, a sostituire Sheppard (Cotter Smith) arriva Gunn, interpretato dall’ex osservatore di Fringe, Michael Cerveris. Cerveris interpreta un capo diverso da Sheppard, interessato molto alla scienza di cui si stanno ponendo le basi a Quantico, ma anche interessato alle possibili vendite di tale esperienza ad altre agenzie, ad altri stati persino, facendo di lui una sorta di “benefattore” ma con un recondito interesse personale per il nuovo metodo di investigazione criminale.

Holden Ford continua sulla sua china di talentuoso, ma talvolta irresponsabile, agente che, se non fosse per il maturo e protettivo Bill Tench, sarebbe già finito nei guai già prima; l’interpretazione di Groff è convincente, ma è proprio quando è insieme a Tench, interpretato da McCallany, che da il meglio di sé. Bill Tench, sin dalla prima stagione, ci viene rappresentato come un integerrimo agente dell’FBI con una famiglia e che vede i doveri verso il Bureau importanti tanto quanto quelli che ha verso la famiglia, ed in questa stagione proprio il rapporto con i suoi famigliari soffrirà del nuovo status di emergente agente a capo dell’unità di scienze comportamentali, mentre il figlio si trova in una difficile posizione e Nancy non riesce ad interpretare i suoi bisogni, così come nemmeno Bill, sempre di più coinvolto da casi come quello di BTK e degli omicidi di Atlanta. Wendy Carr in questa stagione ha più spazio e, nel suo apporto all’ufficio e nelle difficoltà di essere una donna, lesbica, in carriera nel Bureau, in una scienza emergente, la Torv ne esce molto meglio in questa seconda stagione, anche grazie al rapporto di stima reciproca che ha instaurato con Bill Tench, che si riconferma dunque un punto di riferimento per tutto il team. Va fatta una menzione speciale a Damon Herriman che interpreta un Charles Manson ormai in prigione, che attrae l’attenzione dello spettatore, che viene affascinato da questo carismatico santone che ha portato tanta paura a Los Angeles e che ora è considerato una sorta di leggenda, non per merito suo, ma più per quello dei suoi seguaci e delle storie intorno al suo personaggio che, per quanto vengano vendute sempre in maniera diversa, possibilmente partono tutte dal santone, narratore inattendibile della sua stessa storia, come emergerà anche dall’intervista al giovane Tex.

Mindhunter

La regia, come già anticipato, è affidata nelle prime tre puntate a David Fincher, a cui poi subentrano Andrew Dominik e Carl Franklin, che continuano a mostrare la visione del regista, che questa seconda stagione di Mindhunter fa emergere proprio come “showrunner” non ufficiale, grazie alle influenze che la serie prende da pellicole come Zodiac e Se7en. Proprio in merito all’influenza si sente di più quella di Fincher che dell’ altro ideatore della serie, Joe Penhall, soprattutto nelle sequenze d’azione, debitrici di lavori come lo Zodiac. Dal punto di vista tecnico, come al solito, abbiamo di fronte un prodotto Netflix ineccepibile sotto molti punti di vista, ma che non riesce completamente a mantenere i livelli della prima stagione: le interviste continuano ad essere angoscianti e tremendamente difficili da digerire, proprio grazie all’utilizzo di primi piani su personaggi come Charles Manson e all’uso di campi e contro campi quando vi è uno scambio di battute tra volti già noti come quello di Ed Kemper (Cameron Britton) mentre, quando si passa alla vera e propria indagine della stagione. si ha come l’impressione che non si riesca a restituire quel senso di angoscia, non tanto per un problema di atmosfera o sceneggiatura quanto di messa in scena di alcune scelte che sono estremamente classiche e tipiche del genere crime, forse anche a causa dell’assenza di collaboratori di lunga data di Fincher come Asif Kapadi, Tobias Lindholm e Andrew Douglas che nella prima stagione avevano fatto tanto bene seguendo la direzione imposta dal regista.

L’attesa per la seconda stagione di Mindhunter si è fatta davvero sentire, con tanti fan che attendevano il ritorno degli interrogatori dei serial killer e anche delle storie personali e investigative della neonata unità; l’attesa certamente sarà stata lunga, ma non è stata per nulla ingenerosa nei confronti della serie, sopratutto perché la seconda stagione di Mindhunter, seppur non abbia più dalla sua l’essere una novità continua ad inquietante nel raccontare con precisione storie crudeli che non vi faranno quasi dormire la notte. Dunque David Fincher e tutto il team hanno saputo reggere alla pressione data dallo stato di instant cult della prima stagione e consegnare una seconda stagione che tiene incollati allo schermo per più ore consecutive, nonostante qualche scivolone da crime classico che però non rovina il risultato finale, anche grazie alle interpretazioni di un trio di attori davvero capaci ed in parte come Groff, McCallany e Torv.