Mr. Robot, a.k.a. “Noi odiamo lo spettatore”

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Già dalla prima stagione Mr. Robot si è rivelata una delle serie più entusiasmanti e sorprendenti degli ultimi anni, specie considerando che USA Network nell’ultimo decennio ha infilato una serie di prodotti di un livello medio-basso esclusi alcuni come Graceland, Suits e White Collar.

Ma la seconda stagione, ha davvero attentato alla mia vita, qui abbiamo toccato dei livelli degni delle migliori serie tv mai fatte nella storia. Vi dico senza troppa indecisione che avrebbe preso il preso il posto di Breaking Bad al gradino più alto del mio podio personale se solo Walter White non mi avesse strappato il cuore. E comunque mai dire mai.

mr Robot
Se non avete visto la prima stagione ouch, spoiler, my bad.

Da ora in poi siete a rischio spoiler, quindi, as always, ocio.

“Season 1 is for boys, season 2 is for men”

Già dalle prima puntate di questa seconda stagione di Mr. Robot si nota lo stacco netto rispetto alla precedente. Elliot, dopo gli eventi del 5/9, si rinchiude in casa della madre, senza PC e soprattutto senza Internet, quindi tagliato fuori dal mondo e castrato di quei mezzi con cui sarebbe stato inevitabilmente tentato a proseguire nella sua crociata alla Evil Corp. Un sunto molto rapido della prima parte della serie che non è comunque il punto focale di questo articolo, in questa stagione i pregi sono altri, molti altri.
La prima serie è caratterizzata da un carattere decisamente più “action”, nell’accezione Mr. Robot-iana del termine, quindi tanto spionaggio, una finestra esplicita sul mondo dell’hacking e delle questioni etiche e sociali che questo comporta, un po’ di complottismo e di fanta-politica che affonda le radici in un’ambientazione plausibile ma per fortuna irreale – non del tutto almeno. Molto diretta, troppo diretta, esattamente come piace a noi.

Difetti ce ne sono stati, non troppi ma comunque presenti. Innanzitutto una serie di colpi di scena, alcuni davvero troppo telefonati, altri meno, ma comunque all’interno di uno “spettro di possibilità” puramente narrativo ed interno alla storia. Anche quello spunto che per il panorama televisivo è molto originale – se non probabilmente una novità assoluta – l’utilizzo dello spettatore non come semplice testimone della vicenda ma come personaggio passivo della trama, quello che Elliot interpreta come il suo amico immaginario a cui confessa e sfoga i suoi pensieri e le sue domande, è utilizzato in modo brillante ed incisivo solo nelle ultime puntate, in particolare nella scena in cui il protagonista si avvicina alla telecamera, la afferra e la scuote come se fossimo fisicamente noi in quella piazza, davanti a lui, ad assistere alle sue visioni. Insomma, la prima serie ha intelligentemente osato andando ad intaccare i paletti cinematografici tipici delle serie americane, quei compitini che ti assicurano lo share degli spettatori medi (probabilmente producendo la migliore finestra sulla società Newyorkese del 2016, al contrario di tanti drama che a conti fatti rappresentano una Big Apple conformata ancora agli anni ’90 che tanto piacciono al pubblico, ammodernati con mode e tecnologie del nostro periodo) ,riscuotendo la fedeltà e l’apprezzamento di un pubblico appassionato di serie tv ma stufo degli stessi clichè e bisognoso di un prodotto che sia cosciente e sostenuto dal punto di vista contenutistico e formale.

La prima stagione, col senno di poi, è stata propedeutica all’impatto estremamente violento che Mr. Robot ha impresso nella qualità delle serie tv e anche un po’ sulle nostre facce da spettatori sbigottiti. La seconda stagione è la maturazione quasi completa, la forma adulta di una serie che se prima era stata apprezzata per il suo lato culturale e per i suoi tecnicismi da nerd HaXx0r oltre che per il suo lato narrativo e tecnico, ora viene letteralmente esaltata. E sottolineo il “quasi completa“, non sappiamo ancora cosa ci aspetta nella terza stagione.

Prima di buttarmi sul pippone dedicato alle particolarità narrative della serie, che è un pelo più intenso e che forse necessita di conoscenze leggermente più specifiche, (niente di complesso, non sono di certo un esperto), è necessario fare una piccola postilla sul lato tecnico. L’aspetto estetico è rimasto generalmente immutato tra le due stagioni: un utilizzo saggio delle luci, mai finte, sempre naturali o al massimo contestualizzate nell’ambiente, che favoriscono la resa del reale. Sempre a potenziare l’aspetto realistico è la fotografia, dai primi piani ai campi lunghi c’è una ricerca persistente per tagli e posizioni asimmetriche (tra l’altro in totale opposizione con un altro stile fotografico analizzato recentemente su RedCapes.it, l’arte della simmetria di Sherlock), un elemento in qualche modo innovativo, niente di originale sia chiaro, ma che si contestualizza perfettamente all’interno del prodotto. Stessa cosa per le long takes, che ci piazzano non davanti allo schermo, ma all’interno delle scene.

Con questo accenno al ruolo dello spettatore torniamo al centro del discorso, alla ciccia che ha reso lo show la perla che è. Innanzitutto un utilizzo più intenso, seppur secondario, del personaggio-spettatore, che arriva sulla soglia del personaggio attivo. La scena più eclatante è quando Elliot, nella sua stanza insieme al bodyguard di Joanna, chiede allo spettatore di cercare le cimici nella sua stanza: la telecamera inizia a guardarsi intorno, a simulare la ricerca di microfoni e telecamere in un movimento lento e quasi surreale, come se non volesse rendere palese la cosa agli spettatori più distratti. Ma la svolta principale è un’altra, i creatori hanno prepotentemente inserito un livello metatestuale tra Elliot e lo spettatore fuori dalla trama e, per esteso, dal significato del media. Esatto, parlo dell’inizio del sesto episodio, che si presenta all’inizio come l’anello mancante tra la sigla di una sit-com anni ’90 e un live-action dei Simpson, con tanto di presentazione degli attori, non dei personaggi. Per rappresentare quell’anestesia psicologica autoindotta da Elliot (o meglio, da Mr. Robot) gli autori cambiano il significante della puntata, il contenitore, la forma di ciò che stiamo vedendo. E la cosa si ripete al decimo episodio, quando Elliot confessa a noi spettatori che quello che avevamo visto fino ad ora non era la rappresentazione della realtà fittizia dello show, ma un’allegoria, che Elliot ha utilizzato per sopravvivere allo shock sociale e personale, ma soprattutto per proteggere lo spettatore, che non sarebbe stato d’accordo, chiedendoci anche scusa. E ci rendiamo conto all’improvviso di non essere spettatori, ma di essere personaggi all’interno della storia.

Se Elliot è spesso senza controllo, in balia degli eventi che la sua controparte Mr. Robot, rappresentata dal padre, organizza in sua assenza, ha il pieno, permanente controllo su un solo elemento. Noi. E noi siamo all’interno della storia, in preda alle vicissitudini degli eventi, soprattutto in preda a quel grottesco senso di protezione che Elliot ha su di noi. Mi sembra ovvio a questo punto, è solo questione di tempo prima che anche lui si accorga che siamo semplicemente dei Lego, tra l’altro con l’espressione da tonti stampata sul nostro bellissimo testone giallo, nelle mani e nella mente di Elliot, ed è solo questione di tempo prima che lui si prenda gioco di noi, assemblandoci intorno chissà quali realtà e visioni con delle chiavi di lettura da uscirne matti. Non vedo l’ora.

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