[Recensione] The Place – Il nuovo film di Paolo Genovese

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Dopo l’enorme successo in termini di pubblico e critica ottenuto da Perfetti Sconosciuti, Paolo Genovese torna dietro la macchina da presa per dirigere The Place, liberamente adattato dalla serie nordamericana The Booth at the End facilmente reperibile su Netflix. Prima di parlarvi del film in sé, gradirei avventurarmi in una breve premessa personale: parlare di questo film è per me estremamente difficile, poiché è uno dei film più belli e controversi allo stesso tempo che vedrete quest’anno, perché ho avuto il piacere di visionarlo proprio in compagnia del regista, con cui ho apertamente discusso al termine della pellicola e perché il discorso del “libero” adattamento è quantomai complesso, in quanto alcune parti sembrano perfettamente ricalcate dalla serie TV alla pellicola, indi ragion per cui mi limiterò a parlare ed ad analizzare ESCLUSIVAMENTE il film, senza paragoni di sorta con l’opera originale.

La premessa con cui ci cattura Genovese è semplice ma estremamente intrigante: un uomo, seduto ad un tavolino di una tavola calda, il The Place appunto, si offre di esaudire i desideri di chiunque lo contatti, in cambio, però, il richiedente dovrà esaudire un compito richiesto dall’uomo.
L’uomo, magistralmente interpretato da Valerio Mastandrea, lascia libera scelta al richiedente, l’unica condizione posta alla realizzazione del desiderio è la buona riuscita del compito richiesto, anche laddove esso si riveli brutale ed inumano.
Stop.
Dal gusto tipicamente teatrale, il film coinvolge alcuni degli attori facenti parte del fior fiore del cinema italiano degli ultimi anni (il già citato Valerio Mastandrea, Alessandro Borghi, Vinicio Marchioni, Alba Rohrwacher, Vittoria Puccini, Rocco Papaleo, Silvia D’Amico, Silvio Muccino, Giulia Lazzarini, Sabrina Ferilli, Marco Giallini) e li amalgama sotto l’egida di una sceneggiatura solida, ricca di colpi di scena e che, nonostante l’ambientazione statica non annoia lo spettatore, ponendo il fulcro della pellicola sulla potenza dei dialoghi, sotto un certo punto di vista quasi favolistici, magistralmente orchestrati dalla regia di Genovese, pulita e dal gusto spiccatamente retrò.
La domanda che, però, arrovella il cervello dello spettatore è: chi è il misterioso uomo seduto al tavolino del The Place a cui tutti si rivolgono supplicanti e curiosi?

L’atteggiamento machiavellico, l’abbigliamento elegante ma sfiancato, l’enorme agenda nera su cui annota minuziosamente tutti i dettagli delle sue conversazioni sembrerebbero suggerire un’origine diabolica dell’uomo, sicuramente sovrannaturale: ma chi è davvero? Un angelo? Un demone? Lo stesso Dio, che si fa carico morale delle mostruosità e dei peccati dell’uomo o la sua luciferina nemesi? Tra le numerose ipotesi che potrebbero accalcarsi nella mente dello spettatore, una cosa sembra assolutamente certa: l’uomo rappresenta il limite ultimo con cui le persone devono confrontarsi prima di prendere una decisione, sia che la decisione sia di poco conto, sia che possa sconvolgere le loro vite. La mano di Genovese alla sceneggiatura si nota non solo nell’invenzione o nell’estremo rimescolamento di alcuni personaggi rispetto alla serie originale, bensì anche nell’abilità di portare avanti e chiudere le storie in modo sempre sorprendente e mai scontato, quando pensiamo di aver capito l’atteggiamento machiavellico dell’uomo al tavolo e di avere tutte le risposte del caso, ecco che il regista e sceneggiatore cambia le domande, lasciando lo spettatore con un palmo di naso.

La messinscena della pellicola risulta quindi di ottimo livello, se non consideriamo una fotografia buona, che però si perde nella gestione delle luci artificiali, un montaggio sonoro imperfetto ed una colonna sonora che sembra ripetere quasi ossessivamente lo stesso (accattivante) tema. Laddove, però, alcune imperfezioni tecniche macchiano il film, ci pensano le ottime prove d’attore, la grandissima regia e l’eccellente sceneggiatura a catapultare il film pericolosamente vicino alla perfezione. Tutto ciò, però, è reso possibile grazie soprattutto alla caparbietà e alla furbizia di Genovese, che si può amare o odiare, ma di cui va riconosciuta l’enorme capacità di narratore e l’enorme sensibilità nella conoscenza dell’animo umano, una caratteristica ormai sempre più rara nel panorama del rinascimento artistico del cinema italiano.