[der Zweifel] Micheal Moore – Flint, Trump and The People

0
Michael Moore fahrenheit 11/9

In questi giorni è tornate nelle sale il documentarista più irriverente degli Stati Uniti, Micheal Moore. Con Fahrenheit 11/9 Moore affronta la dura realtà americana, e come questa abbia portato alla presidenza Donald J. Trump.
Questo è solo l’ultimo di una lunga serie di film documentari che hanno fatto di Micheal Moore uno dei più grandi indagatori della realtà sociale americana contemporanea.
Tutto inizia da Flint, la città natale di Moore, ed ex-paradiso dell’industria automobilistica americana. Moore inizia nel 1989 raccontando il dramma sociale che avvolge la cittadina del Michigan quando la General Motors, azienda nella quale hanno lavorato anche il nonno e il padre del regista,nonostante i continui profitti decide di licenziare più di 30mila lavoratori.
Da quel primo film, Roger & Me -basato sui continui mancati incontri tra Micheal e il CEO della GM, Flint è sempre stata nella mente del regista che non ha mai smesso di raccontarla e prenderla ad esempio della più grande contraddizione americana: come può il paese più ricco al mondo permettere che così tante persone vivino in una situazione di tale indigenza?
Il complesso sistema sociale americano rimane sotto la lente del regista che nel 2002 presenta al pubblico Bowling for Columbine, il film in cui indaga la profonda passione tutta americana per il diritto di portare armi, anche da guerra, e che sfocia spesso in sparatorie scolastiche. Moore va a Littleton, la cittadina del Colorado in cui si trova la Columbine High School, il liceo dove il 20 aprile 1999 due studenti hanno aperto il fuoco sui loro compagni uccidendone 13. Anche qui segue i vertici della National Rifle Association, l’incarnazione più concreta della lobby delle armi, per ottenere risposte alle paure che attanagliano quelle persone costrette a mandare i propri figli a scuola pregando che nessuno dei loro compagni riesca a trafugare il fucile del padre. Poche e vaghe risposte, ma molto eloquenti.
Con questo film arrivano i primi riconoscimenti internazionali, ma nel 2004, con Fahrenheit 9/11 si consacra come regista scomodo. Come regista, perché il suo diventa il primo documentario a vincere la Palma d’Oro al Festival di Cannes. Come scomodo, perché il suo film, che indaga i rapporti tra la famiglia Bush e la famiglia Bin Laden, e di come il George W. Bush abbia usato la guerra al terrorismo per i suoi scopi personali, affronta enormi difficoltà in patria: mentre il film viene visto in tutto il mondo negli States nessuno si prende la briga di distribuirlo fino a quando i fratelli Weinstein decidono di fondare una nuova società solo per distribuire questo film che otterrà il maggior incasso di sempre per un documentario.
Al grande successo di questo film segue un documentario sul sistema sanitario americano, Sicko, e uno sulla crisi economica mondiale che è deflagrata nel 2006, Capitalism: A love story.
Nel 2015, con Where to invade next?, Moore viaggia al di fuori dagli Stati Uniti per poter prendere il meglio delle esperienze estere da poter trapiantare nella sua madrepatria. Anche qui è forte la critica al sistema sociale americano. Per la cronaca, Moore invade anche l’Italia e si prende le ferie pagate.
Nel 2016 esce Micheal Moore in Trumpland, ovvero una registrazione di un suo spettacolo tenutosi in un teatro di una cittadina roccaforte dei repubblicani.
Arriviamo così all’ultimo film, in cui torna come sempre la sua amata Flint, ancora più vessata e depressa e in cui si chiede come si possa reagire a Donald Trump. Ma non è l’attuale inquilino della Casa Bianca ad essere sotto processo ma tutto l’establishment liberal. È il potere, che si è allontanato dalle persone ad essere messo in discussione, per poterlo riportare nelle mani di quelle persone che non credono più di poter cambiare le cose. Perché questo è il problema che affligge il nostro tempo: le persone non si sentono più rappresentate.
Ma Moore non ci dipinge un quadro a tinte fosche. Come al suo solito dissemina qua e là semi di speranza, pronti a fiorire grazie all’attivismo della società civile e di quelle persone, soprattutto giovani, che scoprono che il loro voto conta e che mobilitandosi possono cambiare le cose.
Perché non basta aver vinto le elezioni per potersi dichiarare re. Il potere è sempre nelle mani delle persone. Nelle mani di ognuno di noi. Bisogna solo tenerlo a mente, per evitare di ritrovarsi un giorno senza più la libertà di poter decidere del proprio futuro.