Quando nel 1995 Mamoru Oshii diresse magistralmente il primo film dedicato all’opera di Masamune Shirow, Ghost in the Shell, creò uno dei più celebri lungometraggi d’animazione che seppe catturare pubblico da tutto il mondo e fu in grado di stringere un legame molto forte tra un certo tipo di cinema, che faceva riferimento al filone cyberpunk e la filosofia, con particolare attenzione al significato del rapporto (in termini di incontro e scontro) tra uomo e macchina.
La trama del nuovo Ghost in the Shell ci parla del Maggiore Mira Killian (Scarlett Johansson), un agente speciale, un ibrido tra cyborg e umano unico nel suo genere, alla guida di un reparto speciale della polizia, la task force Sezione 9, incaricata di sventare i piani dei più pericolosi criminali del mondo. Grazie alle sue capacità fuori del comune, Mira è l’unica in grado di scovare e affrontare la nuova minaccia, un nemico capace di insinuarsi nelle menti cibernetiche fino ad assumerne il completo controllo. Mentre si prepara allo scontro, una terribile verità sul suo passato salta fuori e il cyborg sarà pronta a tutto per scoprire il mistero legato alla sua esistenza.
La pellicola di Rupert Sanders non è, nella maniera più assoluta, il film del maestro Oshii e per tanto, a differenza della stragrande maggioranza della critica internazionale, non crediamo sia giusto parlare di una in confronto all’altra, in quanto sono due film diversi che in comune hanno solo l’opera originale alla quale s’ispirano. Il film di Sunders è infatti un film diverso sia dal manga che dal primo film ispirato a Ghost in the Shell, ma non per questo terribile o poco godibile, anzi!
Oltre ad una sceneggiatura esile e ingenua, che non risulta sempre solida in tutti i suoi punti, sono tanti i pregi del film, primo fra tutti la regia. Rupert Sanders è uno di quei registi che spesso vengono definiti, in campo cinematografico, operai e che vengono assunti dalle grandi produzioni per dirigere, senza infamia e senza lode, dei blockbuster dedicati al grande pubblico. La regia di Sanders però si fa sentire prepotente in più occasioni durante la pellicola, nulla che faccia gridare al capolavoro, sia chiaro, però è una regia capace di gestire bene i personaggi e gli attori ed è in grado di rendere le sequenze più concitate assolutamente godibili, a discapito però delle scene di dialogo che sono lente, eccessivamente enfatizzate e spesso noiose e banali.
La caratterizzazione dei personaggi è un’altro dei punti di pregio della pellicola. Tutti, infatti, hanno il giusto spazio su schermo e la loro importante fetta nello svolgimento della trama. Il Maggiore Mira Killian è un personaggio forse troppo stereotipato per il 2017, ma pur sempre affascinante e ben interpretato, specialmente dal punto di vista fisico, infatti, è facile notare l’ottimo lavoro del regista nel dirigere la Johansson nei movimenti del cyborg, che risultano impacciati e goffi nelle scene di dialogo, come se il Maggiore sentisse sempre come estraneo e distaccato il suo corpo o Shell rispetto al suo Ghost, mentre invece è agile e sinuoso nelle scene d’azione e combattimento, nelle quali emerge il vero scopo delle programmazione della protagonista. Altri personaggi che vale la pena citare sono Batou (Pilou Asbæk), a cui il regista ha concesso lo spazio e il minutaggio che merita, accompagnati da una buona caratterizzazione e realizzazione visiva e sopratutto Daisuke Aramaki, interpretato dal grande Takeshi Kitano, che con sapienza riesce a dare la giusta enfasi in tutte le sue scene.
La scenografia di Jan Roelfs e le musiche di Clint Mansell e Lorne Balfe impreziosiscono la pellicola e contribuiscono sensibilmente nel godimento di quest’ultima.
Nonostante i pregi sopra elencati però, Ghost in the Shell è un film pieno zeppo di difetti. La trama e la sceneggiatura del film sono elementi che risultano troppo spogli, vuoti, ridondanti o addirittura banali oggi come oggi e per quanto si cerchi di non paragonarli con quelli del lungometraggio animato del 1995, chi ha visto entrambi i film non può fare a meno di notare l’impietoso confronto tra i più recenti rispetto ai più antichi. Buchi di sceneggiatura, dialoghi troppo poco convincenti e sopra le righe e un finale scontato e non all’altezza delle aspettative sono l’altra faccia di una medaglia che poteva essere sicuramente più brillante se si fosse stati più attenti e coraggiosi, ma sopratutto meno commerciali e più attenti al lato artistico e filosofico dell’opera che ci si apprestava a portare in scena.
Di definitiva, Ghost in the Shell è un film che punta, come d’altronde era assai prevedibile, ad un vasto pubblico che nella maggioranza dei casi non ha mai nemmeno visto o letto le opere a cui la pellicola si ispira. Tale pubblico probabilmente infatti riuscirà ad apprezzare il film per quello che è, un film di fantascienza un pò vecchio stile ma allo stesso tempo fresco e d’impatto dal punto di vista visivo.
Che siate fan o meno del film di Oshii o del manga originale di Shirow, il nostro consiglio è quello di andare al cinema e guardare un film che non è e non può essere il vecchio Ghost in the Shell, ma è un prodotto tutto sommato di buona fattura che intrattiene e strizza l’occhio ai fan con citazioni alle opere da cui è tratto, e rendendosi allo stesso tempo più che godibile per chi di Ghost in the Shell non ha mai nemmeno sentito parlare.