[Recensione] They’re Not Like Us – Volume 2 di Eric Stephenson e Simon Gane

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Il mondo del fumetto indipendente pullula ormai da anni di opere di estrema validità, ahimè piuttosto sconosciute ai lettori mainstream: l’ultima di queste opere, di fresca uscita italiana per la Saldapress e pubblicato oltreoceano dalla Image Comics è il secondo volume di They’re Not Like Us, che ho il piacere di recensire in anteprima.
La premessa fondamentale, sin dal primo volume, è, senza troppi fronzoli: cosa sarebbe successo se gli X-Men non fossero diventati eroi, ma avessero pensato solamente alla loro sopravvivenza, fregandosene di tutto e tutti?

They’re Not Like Us, nato dalla penna di Eric Stephenson (Nowhere Men) e dalla matita di Simon Gane (Godzilla, Northlanders), cerca di rispondere a questo interrogativo nella maniera più cruda possibile, fornendo l’analisi sociologicamente eccellente della nostra società in relazione al diverso e all’emarginato, unendo in un’opera frizzante ed innovativa un pilastro del fumetto moderno come X-Men ed uno dei prodotti di punta della stessa Image, come Deadly Class.

La giovane Tabitha, in seguito ad un incidente, scopre di essere sempre stata una telepate: verrà quindi educata all’uso dei suoi poteri in relazione al suo posto del mondo dal misterioso The Voice, che la introduce nel suo circolo di telepati. Nel secondo volume vedremo l’emancipazione di Tabitha e dei ragazzi, in seguito a scioccanti rivelazioni.
Mentre la sceneggiatura di Stephenson nel primo volume appariva ordinata, chiara e quasi rigorosa, simboleggiando anche l’autorità della guida di The Voice, nel secondo volume lo vediamo prendersi più libertà, aggiungendo personaggi deragliando dalle linee guida imposte dalla serie, risultando più verticale nella narrazione ma anche molto più confusionaria se facciamo un passo indietro e guardiamo la storia di questo secondo volume nel suo insieme, anche se non mancano alcuni, clamorosi, colpi di scena che conferiscono ritmo e godibilità al volume. Simon Gane invece è praticamente impeccabile nel suo stile di disegno, un unico mix di cartoon, dettagliato e sporco, come se unissimo in ogni tavola i disegni di Frank Miller a quelli di Paul Pope e Geoff Darrow, si parva licet componere magnis. Encomiabile inoltre il design grafico dei personaggi, soprattutto dei nuovi arrivati, e degli ambienti, dove ogni minimo dettaglio e rappresentato e non lasciato al caso, anche e soprattutto nelle scene più cruente, elemento che denota un’enorme cura e fantasia da parte di questo disegnatore fin troppo sconosciuto.
A migliorare i disegni già di ottima fattura ci pensano gli straordinari colori di Jordie Bellaire: la colorista vincitrice di un premio Eisner nel 2014 per The Wake di Scott Snyder e Sean Murphy, è ormai abituata a lavorare su disegni iperdettagliati e dal gusto indie, come dimostrano i suoi lavori su The Manhatthan Projects e Injection, e ci regala quindi un’altra performance prevalentemente ricca di colori pastello dai toni caldi. Troviamo molto arancione, rosso e giallo nelle scene di azione e di relax, mentre l’azzurro, il bianco e il nero accentuano i dialoghi riflessivi, per intenderci, quelli in cui l’autore, attraverso le digressioni dei personaggi, riesce ad esprimere i pochi concetti.

Piuttosto curata anche l’edizione italiana della Saldpress in comodo trade paperback, grazie alla traduzione di Leonardo Rizzi, il lettering di Alessio Ravazzani e la supervisione del “capoccia” Alessio Danesi: il fumetto scorre bene anche in lingua italiana, poiché la facilità della traduzione è data dall’assenza di particolari idiomi e modi di dire.
Come si suol dire, niente di nuovo sotto il sole: edizione italiana praticamente priva di problemi.

Torniamo ora ad analizzare il fumetto dal lato allegorico e metaforico: la splendida storia imbastita da Stephenson va ben oltre l’evidente metafora della difficile integrazione dei “diversi”, in They are not like us, a partire dal titolo, leggibile perfettamente da ognuna delle due parti (chi siamo noi? chi non è come noi?) troviamo conflitti generazionali e rimandi sessantottini: in Tabitha (o Syd, che dir si voglia) rivediamo l’archetipo dell’adolescente dagli anni ’60 al 2017 passando per la generazione X e gli anni rock’n roll, un archetipo fatto di ribellione contro ogni giogo, anche quello che può sembrare fruttuoso, perché l’adolescente è per definizione uno spirito libero, fatto per combattere, cadere e rialzarsi. The Voice, la mano del burattinaio dietro le quinte, è una perfetta sintesi tra Xavier e Magneto, o, per metterla nel contesto pseudo-verosimile in cui si colloca l’opera, tra Martin Luther King e Malcolm X, guida pacata e leader severo, pronto a guidare di persona la causa dell’indipendenza dei diversi, il prossimo stadio dell’evoluzione umana: temo che la cosa gli sia leggermente sfuggita di mano.