Giungiamo al termine della terza stagione di Black Mirror, con un episodio dal titolo Hated In The Nation, o Odio Universale in italiano. Questo ultimo capitolo caratterizza alla perfezione l’evoluzione che la serie ha compiuto rispetto alle prime due stagioni: la base rimane quella, una tecnologia dall’intento positivo il cui utilizzo viene distorto dall’animo umano, il core principale dello spirito del progetto di Charlie Brooker, ma con tinte e sequenze decisamente più orrorifiche della prima stagione e, in alcuni momenti, meno “intime”, preferendo un concetto di paura meno cerebrale e più viscerale, meno destabilizzanti nell’intimo umano ma per questo non meno efficaci.
Hated In The nation è uno degli episodi più lineari della serie, uno dei meno mindfuck che possiamo trovare tra i 12 capitoli che vanno a comporre le prime tre stagioni, prima di questo solo Vota Waldo aveva avuto una trama tutto sommato semplice, almeno in relazione al resto della gamma. Al centro della puntata c’è l’utilizzo improprio e inconsulto dei social network e della gogna popolare che attraversa chi non è ben accetto dalla rete, il che porta ad uno spunto di riflessione proprio a partire dal confronto con Waldo. Chi non ha interesse nella recensione tecnica e cerca direttamente questa parte, voli in fondo all’articolo!
La sinossi, per chi invece vuole rinfrescare la memoria, è dentro questo spoiler:
La narrazione della puntata che prosegue senza intoppi e in modo fin troppo lineare, la sceneggiatura che per gli standard a cui ci ha abituato Brooker poggia fin troppo su dei clichè del crime e la sua eccessiva lunghezza fa sì che Hated In The Nation risulti, dal punto di vista del puro intrattenimento, uno degli episodi più deboli se non più debole di tutti, e forse soffre ancora di più per la sua natura di episodio finale – non che i capitoli di questa serie 3 non siano antologici stavolta ovviamente, ma è inevitabile che alla fine di una stagione più lunga del normale e con alle spalle episodi spettacolari e dall’incredibile magone finale come San Junipero e Shut Up And Dance, ci si aspettava qualcosa che colpisse di più nell’intimo.
Dal punto di vista tecnico credo che la regia sia stata volutamente “ridimensionata” per mettere l’accento sulla vena crime che questo episodio porta con sé (se non fosse per i 16:9 avrei difficoltà a scambiarlo per un poliziesco procedurale qualsiasi in salsa british), che si alleggerisce e diventa di poco più dinamica nell’atto centrale. Personalmente ero poco attratto durante la visione, è inevitabile che possa risultare l’episodio meno coraggioso anche dal punto di vista visivo, ma voglio essere convinto che sia stata una scelta voluta. Fotografia pulita e fin troppo monotona alcune volte, il grigio predominante appesantisce questa realtà distopica dal punto di vista ambientale spiegata allo spettatore in modo diretto ma spalmato lungo il primo atto. La CGI, c’è da dirlo, deludente: se nelle vecchie stagioni il poco budget veniva sopperito da scelte intelligenti riguardo le tecnologie utilizzate, qui la voglia di girare scene terrorifere con situazioni claustrofobiche da zombie movie e una computer grafica di livello non professionale fa sì che la puntata appaia inevitabilmente come un b-movie (o Bee-Movie), soprattutto nella parte centrale.

La storia ha dei preamboli sapienti, la realtà descritta è un’ottima risposta alla famosa sentenza attribuita (erroneamente) ad Albert Einstein che lega l’estinzione delle api a quella del genere umano, e tutto sommato è consistente con il nostro futuro prossimo: robot auto-replicanti, automobili con la guida automatica, tecnologie di domotica anche nelle abitazioni più umili. Si perde in alcuni piccoli dettagli che cozzano con il pratico, a partire dagli schermi di smartphone e laptop trasparenti e allo scambio dei numeri semplicemente affiancando i telefoni, la prima impensabile per i limiti della privacy personale, la seconda che riassume una tecnologia conosciuta già dai anni e mai utilizzata in modo capillare, ma queste sono piccole sfumature che appiattiscono di poco la tridimensionalità dell’ambientazione. E’ però paradossale come la protagonista principale, che presumo essere una millennial visto il livello tecnologico del presente raccontato nella storia, non abbia idea di cosa sia un hashtag e un codice IMEI: questo è il primo vero difetto rilevante, lo sceneggiatore sfrutta questa improbabile ignoranza per i tipici spiegoni dell'”IT guy” rivolti al pubblico inesperto: personalmente non ho apprezzato la scelta, fino ad ora Black Mirror ci aveva abituato a scelte brillanti per evitare scene da thriller di lega meno nobile come quelle appena descritte, rappresentando tecnologie anche mirabolanti senza doverle per forza spiegare, evidenziando più l’effetto che queste portavano e non le cause, Black Mirror è sempre stato soprattutto questo. Insomma, era uno dei tanti pregi della serie che, almeno in questo episodio, decade. C’è da dire però che lo scontro generazionale tra Karin e Blue, che diventa un po’ il motore del buon mix delle due protagoniste, funziona, spicca, e mette in secondo piano le sfumature di cui parlavo prima. La sceneggiatura non è male, sebbene, come dicevo prima, si appoggia su alcuni cliché del genere che sì, banalizzano lo svolgimento, ma alleggeriscono l’episodio, che ricordiamo sfiora i 90 minuti.
Una menzione speciale al “villain” Scholes, che non solo rende bene pur non avendo mezza battuta, ma stacca bene dal resto della puntata, è un mastermind che non lascia nulla al caso, bene così. Vi dirò, secondo me c’è qualcosa di più: sono convinto del fatto che questo contrasto tra un cattivo, freddo e sempre svariati passi avanti, e dei buoni, dalle rampanti intuizioni e dal forte sentimento di giustizia ma sempre troppo lenti, riassumono la differenza tra un crime fatto a caso e un crime alla Black Mirror. E’ come se Brooker avesse voluto mettere in contrasto un suo personaggio cinico ed estremamente reale, fin troppo simile ad un terrorista della vita vera, con delle maschere prese a caso da CSI, NCIS, Cold Case et similia, il che giustificherebbe anche alcune scelte dell’autore, altrimenti fin troppo semplicistiche. Anche sul finale, non sappiamo se lui sia stato effettivamente catturato o meno, mi piace pensare che sia stato un passo avanti anche in quell’occasione.

Prima di chiudere, parlo del paragone con Vota Waldo: Odio Universale ha al centro, come abbiamo detto prima, il distorto senso di giustizia dell’utenza web spronato dai media verso coloro che falliscono nell’apparire candidi agli occhi dell’opinione pubblica. Waldo analizzava e spingeva a tavoletta un fenomeno che sarebbe scoppiato di lì a poco, leggendo alla perfezione l’ondata populista del 2016 e dandone una fin troppo distopica e caricaturale fine, che lasciava comunque una morale addosso, un punto di vista ben definito. Entrambe le puntate hanno mirato ad un fenomeno di massa e l’hanno amplificato, centrando alla perfezione in un modo quasi pulito e netto. Ma se la prima era un fenomeno in voga già ai tempi dell’uscita della puntata e che è andato lentamente a crescere, è disarmante vedere come questa ultima puntata colga esattamente il segno solo mesi dopo, con le conseguenze (tra gli altri) del caso Weinstein, la morte della carriera di Kevin Spacey, le demolizioni su pubblica piazza dei personaggi che famosi che si rivelano essere nient’altro che delle persone con delle debolezze e poco giudizio, e i media che cavalcano l’onda della notizia in barba alle ripercussioni.
Questa puntata è in bilico tra l’essere un esperimento fallito, una sottilissima critica alla maggioranza dei tv show procedurali e una magistrale previsione della nostra società popolare su internet. Probabilmente tutto sarà più chiaro nella quarta stagione, vedremo se Brooker ha effettivamente finito le idee o meno!