I morti non muoiono di Jim Jarmusch | Recensione

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I morti non muoiono

E’ in tutti i cinema in questi giorni I morti non muoiono, nuovo film di Jim Jarmusch, presentato in anteprima al Festival di Cannes.

Correva l’anno 1968 quando un giovane George A. Romero, all’epoca regista sconosciuto, creava, quasi dal nulla e con poche migliaia di dollari, “La notte dei morti viventi”, film capostipite degli zombie movie. Di impronta prettamente horror, il film non si prefiggeva solo lo scopo di far saltare sulla sedia gli spettatori o di mandarli a letto in preda agli incubi, ma era anzi pregno di critica sociale, più o meno velata, contro l’America di quegli anni, impegnata nella guerra del Vietnam da una parte, nella guerra fredda dall’altra e oscurata al suo interno da un razzismo crescente e apparentemente impossibile da arginare.
Con una sottile similitudine, che a molti infatti sfuggì, Romero fece interpretare ai suoi non morti il ruolo di una società che si sgretola, in preda alle proprie bassezze animali, controbilanciata dai vivi, più volte ugualmente immeritevoli durante la pellicola, offuscati da paura, ego e pregiudizio.

I morti non muoiono

Il genere zombie, al di là di Romero, non ha mai avuto seguiti altrettanto impegnati, si è infatti per lo più arenato nella laguna del genere horror, con una nota di spicco rappresentata da “L’alba dei morti viventi”, del 2004 con regista Zack Snyder, che, malgrado muovesse dal soggetto di Romero, ha ottenuto come unica ricompensa l’odio eterno di quest’ultimo verso il regista, accusato di aver completamente stravolto la sua idea originaria.

Se dunque la saga dei non morti sembrava destinata, finora, a doversi ridurre a filmetti di serie B, mai davvero spaventosi e mai davvero significativi, Jim Jarmusch ha comunque deciso di dire la sua in merito.
In “Solo gli amanti sopravvivono” (2013), il regista si serviva di un altro canone del cinema horror, il vampiro, per raccontare la futilità della vita umana, dove un vampiro millenario, interpretato da Tom Hiddleston, iniziava ad accarezzare l’idea del suicidio, esasperato dagli “zombie”, gli esseri umani (una scelta di parole che, per chi vuole vederlo, è già un omaggio a Romero), e dalle loro vite futili e inconsistenti.

Successivamente in “Paterson”, meravigliosa pellicola del 2016, Jarmusch sceglie di raccontare la vita ordinaria di Paterson, Adam Driver, cittadino dell’omonima città e autista di Bus, personaggio infinitamente abitudinario con una passione per le poesie, che scrive per la sua unica lettrice, la frizzantissima moglie Laura. La vita di Paterson è un susseguirsi di rituali sempre uguali, svuotato da qualunque ambizione dell’epoca moderna lui vive in un microclima di felicità, dove ogni cosa trova il suo posto e dove ciò che a prima vista può apparire come noia si rivela poi la vera condizione di felicità dell’essere umano.

Se quindi in “Solo gli amanti sopravvivono” il punto di vista verso l’uomo, per come lo intende Jarmusch è esterno ed in “Paterson” è assente, volendo egli mostrare un uomo che vive in contrapposizione totale rispetto ai dettami del 21esimo secolo, in “I morti non muoiono”, finalmente, il protagonista è l’uomo contemporaneo in persona, non più l’eccezione ne l’entità sovrumana.
Nonostante il film sia a tutti gli effetti uno zombie movie, l’atmosfera horror è ridotta veramente al minimo, è infatti precisa scelta registica quella di puntare più su un clima generale che ruoti intorno ad elementi di demenzialità e ironia; l’immedesimazione dello spettatore è ulteriormente ridotta dalle ricorrenti rotture della quarta parete, quasi come se il regista volesse far capire che quello che viene messo in scena è un messaggio da parte sua e non un racconto dotato di vero e proprio senso compiuto, nel quale lo spettatore non deve immergersi del tutto ma piuttosto guardare con occhio clinico, osservatore.

Il modo giusto di guardare questo film, a parere di chi scrive, è infatti proprio quello di considerarlo un messaggio da codificare; i protagonisti della pellicola, zombie inclusi, sono infatti tutti riconducibili a diversi aspetti della natura umana e della società moderna.
Durante la prima metà del film, nonostante non succeda ancora nulla di significativo, l’agente Ronnie Peterson (Adam Driver) inizia già a ripetere in modo ossessivo e senza alcun senso che “tutta questa storia finirà male”, davanti a un confuso Cliff Robertson (Bill Murray). Questa continua asserzione, unita al fatto che in più scene si faccia riferimento a cambiamenti climatici, spostamento dell’asse terrestre e in generale disastri naturali causati dall’azione dell’uomo, crea una sensazione di similitudine con il mondo reale, in preda a fenomeni di uguale portata (seppur privi di connotazioni fantascientifiche), e consapevole che “tutta questa storia finirà male” tanto quanto incapace di fare alcunché di significativo a riguardo.

La tematica ambientalista e l’accidia del genere umano sono, senza alcun dubbio, i capisaldi di tutta la narrazione; non c’è nessun personaggio che non incarni una o più caratteristiche negative tipiche della società moderna, in particolar modo occidentale, dall’egoista al materialista, passando per il razzista, il superficiale, il complottista, il terrorizzato che si rifugia dietro falsi atteggiamenti di forza e, forse il peggiore, l’indifferente.
I veri protagonisti poi, gli zombie, rianimati in seguito a radiazioni lunari causate dallo spostamento dei poli terrestri, hanno anch’essi delle peculiarità rispetto al classico non morto; oltre ad essere piuttosto caricaturali e raramente spaventosi, hanno due curiose caratteristiche: ripetono ossessivamente una parola sola, diversa per ciascuno, che rispecchia quella che è stata la loro ossessione in vita, dal fashion, all’alcol, ai soldi e via dicendo, e, invece che cibarsi di cervelli, si nutrono di intestini umani.

Questi due atteggiamenti non sono ovviamente casuali, ancora una volta il non morto si fa vera metafora dell’essere umano, forse nel modo più esplicito di sempre; un uomo perso, rimbambito dalle sue ossessioni materialistiche, edonistiche e prettamente “di pancia”, aspetto enfatizzato dall’alimentazione di questi zombie, non più il cervello (da precisare che il cibarsi del cervello è una caratteristica estranea ai film di Romero, ma ormai entrata nell’immaginario collettivo, come lo stesso film riconosce), centro dei pensieri, ma la pancia, metaforicamente associata al lato più selvaggio e animale dell’uomo.

L’inettitudine degli umani rimasti nell’affrontare il problema è pressoché totale, l’inevitabilità della sconfitta è più e più volte dichiarata dallo stesso Ronnie, che come già detto ripete ciclicamente che tutto finirà male finché, esasperato, Cliff gli chiede come facesse a saperlo fin dall’inizio, sentendosi rispondere: “Lo so perchè Jim (Jarmusch) mi ha fatto leggere il copione”. Una battuta che ancora una volta si fa metafora della condizione dell’uomo contemporaneo, sempre in riferimento ai cambiamenti climatici e al disgregarsi dei valori umani, in parte ormai consapevole di cosa gli riserva il futuro come un attore che ha già letto il finale della storia nel copione.
Nessun personaggio si salva, non importa di quale aspetto della società si faccia portatore, non importa quale caratteristica dell’uomo moderno rappresenti, non si salva l’indifferente, non si salva il razzista, non “l’hipster di città”, non si salva il razionale, il complottista e nemmeno l’emarginato.

Esistono solo tre personaggi davvero “outsider”, al di fuori della società che ci viene rappresentata nel senso più pieno della parola.

Uno di questi è l’eremita Bob, Tom Waits, che a tratti si fa anche narratore, il primo ad accorgersi veramente che sta succedendo qualcosa di strano, vedendone i segni nella natura e non abbandonandosi a presagi fatalisti. In una scena in particolare ritrova tra i boschi una copia di “Moby Dick” di Herman Melville, la storia che per antonomasia rappresenta la sfida sconsiderata dell’uomo alla natura. Un avvenimento magari un po’ gratuito, in effetti, ma che di nuovo pone al centro della narrazione la tematica della superbia umana.
L’eremita si salverà rimanendo nei suoi boschi e rifiutando categoricamente di interagire con qualunque altro personaggio; in sostanza sceglie di non partecipare alla distruzione messa in atto dal genere umano, non potendo tuttavia far nulla di apprezzabile per arginarla e lasciando intendere che, alla lunga, ne verrà travolto anche lui o, nella migliore delle ipotesi, rimarrà l’unico sopravvissuto in un mondo ormai distrutto.

I morti non muoiono

Altro personaggio “outsider”, molto più complesso da decodificare, caratteristica chiaramente voluta dal regista, è quello di Zelda Winston, Tilda Swinton. Zelda è una donna dalle sembianze cadaveriche e dalla pelle diafana, dai modi incredibilmente affettati e ampollosi, arriva a Centerville per occuparsi della casa mortuaria e pratica l’arte della spada samurai. Progredendo nel film si rivela essere una persona anaffettiva, calcolatrice, una combattente formidabile e una sorta di genio della tecnologia; in poche parole, questo personaggio incarna diversi aspetti superomistici, variegati e potenzialmente infiniti, che creano dapprima una fievole speranza di sopravvivenza negli altri protagonisti, per poi risolversi in una scena finale, tanto geniale quanto assurda, che la vede prendere un’astronave e abbandonare il pianeta, davanti agli sbigottiti protagonisti che la guardano allontanarsi mentre Ronnie dice che questo nel copione il regista non l’aveva messo.
E’ davvero complesso racchiudere il personaggio di Zelda in un’unica sfera di significato, d’altronde è scritto appositamente per non essere decodificato, tuttavia tutto quello che rappresenta è, genericamente, l’insieme delle false speranze dell’umanità: la fede, la tecnologia, il controllo della natura, la forza, aspetti della coscienza collettiva a cui l’uomo si affida pur non comprendendoli a fondo, esattamente come i personaggi del film non comprendono a fondo chi o cosa hanno davanti quando interagiscono con lei. Il fatto che abbandoni il pianeta senza salvare nessuno al di fuori di se stessa è una drammatica rappresentazione dell’inconsistenza delle credenze e dei miti del progresso davanti alla concretezza della distruzione del nostro habitat naturale.

Ultimo ma non meno importante personaggio “outsider” è in realtà una triade, composta da tre ragazzini rinchiusi nel carcere minorile di Centerville. Questi 3 personaggi, oltre ad incarnare la metafora del bambino-futuro-dell’umanità, sono sorprendentemente gli unici realmente consapevoli della portata del disastro imminente, gli unici a spaventarsi quando apprendono dal telegiornale dello spostamento dell’asse terrestre e, ancora, gli unici a saperne calcolare, in linea di massima, gli effetti. Emblematico è il fatto che si ritrovino rinchiusi in un carcere, pur non avendo mai atteggiamenti “criminali” o anche solo irrispettosi verso nessuno.

E’ abbastanza evidente che i tre non riusciranno a salvarsi, nonostante la loro consapevolezza, tuttavia il loro arco narrativo non ha una vera e propria conclusione, ed è difficile sostenere che il regista se ne sia semplicemente dimenticato; molto più probabile invece che abbia scelto di lasciare uno spiraglio, seppur minimo, aperto per un finale vagamente speranzoso per l’umanità.
Dietro la macchina da presa ritroviamo sempre lo stesso Jarmusch, la regia è posata, gli attori dinamici nelle scene che prediligono sempre una telecamera ferma o dai movimenti lenti, a suggerire implicitamente un ritmo del film molto più vicino alla narrativa piuttosto che all’azione serrata o all’horror.

La colonna sonora si compone di un’unico brano scritto appositamente per il film, “The dead don’t die” interpretato da Sturgill Simpson, che viene ripetuto ossessivamente, a mo’ di presagio, finché Cliff, esasperato, non distrugge il cd.

“I morti non muoiono” è un piccolo grande gioiello, un omaggio a e un ricordo di George A. Romero e di ciò che lui volle fare servendosi dell’espediente dei non morti, reinterpretati da Jarmusch in una chiave nuova, tragicomica e un po’ patetica, estremizzazione dell’uomo miserabile e venale, dimentico di tutto ciò che vada oltre se stesso. E’ una rappresentazione interessante ed estremamente cupa dell’umanità del 21esimo secolo, dove la bilancia tra la moralità dell’uomo e il trionfo dell’ego pende nettamente verso quest’ultimo.