Continua la nostra serie di recensioni su The Last Dance, la serie documentaristica sulla stagione 97/98 dei Chicago Bulls e di Michael Jordan, conclusasi con lo storico sesto titolo NBA per il team del più grande giocatore di sempre.
Ci eravamo lasciati, alla fine del sesto episodio, con i dubbi legati ad un’ipotetica ludopatia di Michael, in procinto di vincere il suo terzo titolo consecutivo contro i Phoenix Suns ed in evidente stato di stress dovuto alle moltissime pressioni, illazioni e, ovviamente, al fardello di dover sempre vincere, una delle più grandi minacce dei campioni di ogni sport.
Il settimo episodio riparte proprio da qui, con un Jordan che sta palesemente pensando al ritiro e che, qualora ce ne fosse bisogno, avrà nell’omicidio del padre un’ulteriore motivazione per appendere le scarpe al chiodo e dedicarsi ad una nuova sfida, il baseball (sport in cui non sarà ricordato come il più grande di sempre ma nel quale, probabilmente, avrebbe comunque ottenuto risultati più che buoni, viste le prestazioni sempre più convincenti).
L’omicidio del padre, oltre ad essere, ovviamente, una tragedia per l’uomo Michael Jordan, funge da apripista ad un tema che, nei primi episodi di The Last Dance, era stato trattato pochissimo: il lato umano di Jordan, le sue insicurezze, i suoi traumi, la pressione (di cui si era parlato brevemente nel sesto episodio), l’incredibile legame proprio con il padre, suo consigliere, confidente e migliore amico.
E’ un Jordan più fragile quello che ci viene mostrato in questi episodi, un Michael Jordan che, per alcuni momenti, smette i panni di divinità sportiva e riprende quelli di uomo, smarrito dalla perdita del genitore, oppresso da sospetti ed illazioni sia sulle motivazioni della morte di James, sia sulle reali cause del suo ritiro dal basket giocato. Un Jordan che, al ritorno, conoscerà nuovamente l’amaro sapore della sconfitta, le parole dei detrattori, ma che soprattutto troverà nuova forza e nuovi stimoli, quelli che probabilmente aveva perso, per ritornare ancora più forte e vendicativo di prima, aiutato anche da una dichiarazione di Nick Anderson degli Orlando Magic:
“Il 23 era leggendario, il 45 è semplicemente forte” (Jordan al suo rientro ha deciso di indossare la maglia con il numero 45, per far sì che l’ultima partita vista dal padre fosse anche l’ultima con l’iconico numero 23. Ovviamente non durerà molto, sia per questioni di marketing che di “feeling” del giocatore).
Vendicativo, un termine che non abbiamo usato a caso: The Last Dance ci mostra spesso questo aspetto di Michael, e questa penultima tornata di episodi lo amplia oltre ogni limite. Jordan, oltre a non poter sopportare una sconfitta, pur accettandola, come nel caso di quella patita dagli Orlando Magic nella stagione del ritorno, e riconoscendo i propri limiti, si trasforma in un “uomo in missione”, una sorta di bestia ferita ed estremamente pericolosa, tanto da iniziare ad allenarsi il giorno dopo l’eliminazione con l’obbiettivo di ripagare il torto subito alla prima occasione buona: un’occasione che arriverà proprio nei playoffs della stagione successiva.
A spiegare al meglio questo stato d’animo di Jordan è Steve Kerr, attuale capoallenatore di Golden State Warriors, unica squadra nella storia ad aver registrato una regular season migliore di quella dei record dei Bulls, con 73 vittorie e 9 sconfitte, contro il record 72-10 di Michael e soci, proprio nella prima stagione dopo il ritorno di Air: Kerr racconta infatti il celebre aneddoto del pugno ricevuto da Michael che, in uno dei suoi eccessivi tentativi di spronare i compagni (o di “prepararli alla guerra”, come dice ancora oggi), dopo le scuse del campione dei Bulls rese molto più salda la relazione tra i due, in un rapporto di fiducia che porterà Kerr ad essere decisivo in alcune partite delle finali degli anni successivi. Ovviamente il Michael che ne emerge è sempre il solito: ultra competitivo, con pretese di impegno al limite dell’inverosimile verso i compagni ma che, come lui stesso ammetterà in un video ambientato “nel presente”, non ha mai preteso dai compagni qualcosa che lui non facesse. E la scena in questione ci mostra ulteriormente il lato umano e forse fragile del grande campione, che ripete le parole con la voce strozzata, quasi a cercare di far capire allo spettatore che non è mai stato il tiranno che molti hanno voluto descrivere, ma solo un uomo così competitivo da voler spronare tutti a fare del loro meglio. A giudicare dalle testimonianze di altri compagni, come Bill Wennington, Jud Buechler e Scott Burrell, il metodo Jordan si è rivelato valido.
Continuano poi i flashback, ormai elemento imprescindibile di questo racconto, che mettono in parallelo il primo ritiro, e le conseguenze per il team, con l’imminente nuovo ritiro, che avverrà proprio alla fine della stagione che ci sta raccontando The Last Dance: se, nel primo caso, la squadra continuerà ad avere risultati comunque buoni, con Scottie Pippen a fare da leader (e ad avere, in un caso, un comportamento decisamente sgradevole), dopo il titolo del ’98 i Chicago Bulls dei record verranno smantellati, non tornando mai più ai fasti di un tempo, a causa di un mix tra decisioni sbagliate, sfortuna e infortuni.
L’ottava puntata di The Last Dance si conclude con l’inizio della serie di finali di conference contro gli Indiana Pacers di Reggie Miller, una delle serie in cui i Bulls hanno rischiato maggiormente di perdere nel secondo threepeat, ed è probabile che gli ultimi due episodi ci mostreranno molto del 1998, e poco del passato, per concludere al meglio la cavalcata trionfale di questa serie.
Un deciso miglioramento rispetto ai precedenti episodi che, seppur sempre Jordan-centrici, avevano decisamente osato troppo poco: non che gli episodi 7 e 8 ci mostrino chissà quale lato malvagio e segreto di Jordan, ma fortunatamente abbandonano, almeno negli ambiti non sportivi, quel tono da agiografia per mostrarci anche l’uomo Michael Jordan.
Alla prossima settimana con il gran finale!