Si è conclusa da poco la quarta ed ultima stagione di The Man in The High Castle, serie tv di Amazon Prime Video basata sul romanzo di Philip K. Dick. Sarà stato in grado di reggere il confronto con le precedenti stagioni? Scopriamolo.
Dopo che Juliana Crain (Alexa Davalos) è scappata dalle grinfie del Reichsmarschall John Smith (Rufus Sewell), è passato un anno e il mondo è cambiato profondamente. Wyatt Price (Jason O’Mara) comanda il nuovo esercito della Resistenza, mentre la BCR sta mettendo a dura prova l’impero Giapponese nei territori del Pacifico. Quando però la minaccia dei Nazisti si espande ad altri mondi, Juliana deve tornare e affrontare il suo incubo peggiore: assistere alla completa distruzione dell’America nei simboli e nel cuore.
La terza stagione della serie ci aveva portato molta più diversità rispetto a quella che avevamo visto nelle prime due stagioni: infatti, dopo la nomina di Smith a Oberstgruppenfuhrer, avevamo abbandonato i soli ambienti del Reich D’America per vedere molto più nel dettaglio i territori del Pacifico e la Zona Neutrale, e questa stagione continua su quella linea, ambientando gran parte dell’azione tra la guerra della BCR ai Giapponesi e la Resistenza di Price nel Reich Americano. Come se non bastasse questa stagione presentava dei rischi maggiori non solo per il mondo dell’Alto Castello ma per tutti gli altri mondi, che ora diventavano nuovi obbiettivi per il Reich di Himmler.
A primo acchito una stagione con così tanti spunti avrebbe dovuto essere la più esplosiva di tutte e per certi versi lo è stata, ma non completamente. Infatti la serie, sebbene si sia certamente costruita una nutrita schiera di fan che la seguiva e che ogni anno si ampliava insieme ai profitti che la serie sembrava riuscire a portare ad Amazon, resta pur sempre parlando di una serie ambientata negli anni ’60 di un modo in cui l’Asse ha vinto, e questo già per le prime stagioni era un problema evidente, non solo per il budget ma anche per la produzione della serie, che spesso si doveva affidare a green screen per riprodurre il mondo alternativo in cui si muovono i personaggi e con la necessità di alzare sempre di più la posta in gioco, ha portato i personaggi prima in Europa, poi in mondi alternativi persino, costringendo così il team a ricostruire persino gli ambienti storici dello stesso periodo in un’ America libera. Proprio questo ha reso, in questa ultima stagione, ancora più evidente l’eccessivo uso di green screen nelle parti ambientate nel mondo dell’Alto Castello. Quindi una fotografia scura e dei colori estremamente saturati non sono riusciti a nascondere ciò all’occhio, che magari passava dal Reich d’America alla Virginia degli anni ’60.
Come se non bastasse tutti i temi che sono stati inseriti in questa quarta stagione di The Man in the High Castle sono davvero tanti e la durata degli episodi ha spesso creato un problema, sopratutto perché si parla di 10 episodi con una durata che variava dai 45 ai 60 minuti, portando alcuni avvenimenti a dover impiegare meno del tempo necessario ad essere completamente esplorati: tra tutti i più sacrificati quest’anno sono forse stati proprio il Robert Childan di Brennan Brown e l’Ispettore Kido di Joel de La Fuente; quest’ultimo sembrava proprio importante in seguito alla morte del ministro del commercio Tagomi, ma ben poco spazio ha ricevuto nell’atto finale della serie che lo ha quasi eliminato in maniera maldestra, se ci si può permettere di dirlo.
Però, seppur con la velocità con la quale tutti gli eventi si sono sviluppati, siamo comunque di fronte ad una grande serie, che sicuramente verrà ricordata per anni anche dopo la sua conclusione, sia per un’estetica interessante che per l’originalità con cui poi si è continuato ad allontanarsi dal libro di Philip K. Dick. Come se non bastasse bisogna davvero fare un plagio alle interpretazioni di Rufus Sewell e Alexa Davalos, punti fermi della serie sin dalla prima stagione che insieme dimostravano di avere una grande chimica e che, quando li si è portati in direzioni diverse, hanno fatto letteralmente decollare la serie: il primo completamente consumato dal Reich, la seconda una fiamma ardente della resistenza che ha trovato con il Wyatt di Jason O’Mara una chimica invidiabile; O’Mara, con la sua presenza, insieme al fatto di aver già interpretato un comandante in tempi duri contro nazisti in Agents of SHIELD quando era Il Patriota, si è fatto presto strada nei cuori degli spettatori e nel finale, quando accetta di poter tornare alla vita di Liam, è riuscito anche a scaldare il cuore pubblico.
Molte sono state le critiche lanciate al finale, considerato “affrettato” e aperto, ed è effettivamente vero che, sebbene una quinta stagione sarebbe stata esagerata, sicuramente degli episodi in più avrebbero permesso una conclusione migliore per alcune storyline a cui ci eravamo affezionati.
The Man in The High Castle si conclude così, in maniera concitata, emozionante e anche parecchio positiva nonostante il mondo in cui è ambientato: tutti i personaggi hanno avuto dignità nel corso della serie e hanno raggiunto la loro naturale conclusione e il fatto che per tutta la serie sia nazisti che Giapponesi non siano mai stati rappresentati come demoni ma anche come esseri umani ha aiutato la serie a prendersi molto più sul serio di certe produzioni che già avevano immaginato scenari simili. L’uomo nell’Alto Castello è una storia di speranza, speranza che brucia ardentemente negli occhi di Juliana e che si è spenta ed è stata consumata in John, una storia che racconta la crescente speranza e l’ardente incontrollabilità di uomini e donne nei confronti dei tiranni che hanno trasformato i rimpianti in forza, mentre altri (John ed Helen Smith) sono stati affogati da possibilità di cose che avrebbero potuto essere e che infine non si sono avverate.