[Recensione] Collateral Beauty – La fragilità della psiche

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I film drammatici sono spesso conditi di vari cliché e stereotipi che hanno, in qualche modo, appiattito questo genere. Possiamo fare una lista interminabile di film che hanno le stesse premesse, le stesse meccaniche e le stesse frasi fatte. Arriviamo quindi alla conclusione che è davvero difficile trovare qualcosa di veramente nuovo del genere, o che perlomeno ci emozioni stupendoci.
Fatta questa premessa, “Collateral Beauty“, dal regista premio Oscar David Frankel (“Il diavolo veste Prada“, “Io & Marley“) , non fa parte (almeno per la maggior parte del film) di questa categoria. Ma andiamo con ordine.

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La trama si sviluppa su un tema già ricorrente nel genere: la morte di una persona, in questo caso di una bambina.
Ma questo, a differenza di molti altri film, è solo un pretesto, o meglio inizio, per raccontare una storia più “grande”. Sia chiaro, non è il primo film a proporre una meccanica del genere, ma quantomeno lo fa con delle trovate interessanti.

Howard (Will Smith) è il capo di un importante azienda che potrebbe fallire da un momento all’altro. Il motivo è la morte della figlia di Howard: quest’ultimo non è riuscito a metabolizzare il lutto e ha smesso di vivere, smettendo di preoccuparsi sia si sé stesso che della sua amata azienda. Vedendo il deteriorasi della situazione, i suoi amici Whit (Edward Norton), Claire (Kate Winslet) e Simon (Michael Peña) cercano di capire cosa gli stia succedendo. Vengono quindi a scoprire che il loro amico scrive delle lettere a tre entità: Morte, Tempo e Amore. Capendo quindi che Howard non è più in grado di dirigere l’azienda, cercano un modo per dimostrare il suo stato mentale al fine di togliergli i poteri per non far fallire l’azienda e allo stesso tempo per aiutarlo. Per farlo assumeranno tre attori che avranno il compito di interpretare le tre entità a cui il protagonista scrive.

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Già dalla trama possiamo capire che il film si erge sopra tre aspetti principali: la perdita, il dolore e l’amicizia. Ma c’è un qualcosa che racchiude questi tre aspetti fondamentali e che è il vero fulcro della pellicola: la vita.
Questa parola, così semplice ma complicata allo stesso tempo, che i protagonisti devono riconquistare. Proprio così.
A qualcuno manca l’amore, a qualcuno manca il tempo, qualcun altro ha lottato con la morte. E tutti non riescono a vivere la loro vita in maniera soddisfacente. Attenzione, “soddisfacente” non significa “felici”, ma in questo caso rappresenta l’accettazione della realtà. Non si può vivere senza accettare ciò che succede. Il film si prefigge dunque di fare un’analisi sui comportamenti umani di fronte agli avvenimenti che lo colpiscono: Howard non ha accettato che la morte si prendesse sua figlia, il poco tempo che ha avuto per starle accanto e il tradimento dell’amore, che dopo averlo reso felice lo ha abbandonato.

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I co-protagonisti sono anch’essi legati a questi tre fondamenti della vita e si crea dunque un forte e profondo legame (in maniera metaforica anche questo una Collateral Beauty) ma anche una contrapposizione tra Howard e i suoi amici. Tutto ciò serve a farci capire la grandezza della vita e come questa possa sembrarci crudele.

Il compito di risollevare il protagonista è affidato ai tre attori teatrali, scoperti per caso da Whit, che interpretano le tre entità. I tre hanno un ruolo simile a quello degli Spiriti del Natale del “Canto di Natale” di Charles Dickens (e la storia ha luogo durante il periodo natalizio)

La Morte (Helen Mirren) è una forte anziana, che non si arrende mai ma anche gentile e saggia.
L’Amore (Keira Knightley) è una ragazza dolce, sensibile e che riesce a conquistare chiunque col suo modo di essere.
Il Tempo (Jacob Latimore) è un ragazzo scontroso, sveglio e che cerca di far cambiare Howard dicendogli la realtà nuda e cruda, arrabbiandosi per il modo in cui il protagonista lo spreca.

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Nella prima parte di film tutto scorre abbastanza liscio e non ci sono incongruenze o dettagli che fanno storcere il naso. Il tutto è chiaro fin da subito e le dinamiche funzionano, anche se non sono particolarmente articolate e profonde come ci si poteva aspettare da un film con un certo tipo di premessa. Ma anche grazie a dei buoni dialoghi tutto è molto godibile.

Ma è dalla seconda metà che il film convince di meno. Uno dei problemi principali sta soprattutto nelle dinamiche tra le tre entità e i co-protagonisti. Se con Howard le entità ci appaiono per ciò che viene chiarito poco prima, con i suoi amici assumono un ruolo differente che viene confermato (per chi ne avesse bisogno) con un “colpo di scena”, che poi tanto colpo di scena non è visto che viene introdotto gradualmente e si può comprendere addirittura prima del finale. La cosa comunque non infastidisce al punto tale da rovinare il tutto anche se rende questa storia, che si basa principalmente sulla fragilità della psiche umana e sulla percezione della vita, più irrealistica dandogli un sapore diverso e che sa di una trovata vista e rivista in moltissimi altri prodotti audiovisivi e letterali.
Ad accompagnare questo colpo di scena, ce ne viene proposto un altro che da meno fastidio e che funziona un tantino di più, anche se forse andava gestito meglio perché sarebbe lecito pensare che la cosa non abbia molto senso (ed effettivamente, da un punto di vista puramente logico, non ce l’ha).

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Le performance degli attori è buona, ma fatta eccezione per Will Smith che si conferma ancora una volta adatto a film drammatici e a personaggi di un certo carico emotivo, non è assolutamente sopra la media dei film del genere. C’è delusione soprattutto per Edward Norton che offre una discreta prova ma che non lascia nulla, anche se c’è da dire che in generale la sceneggiatura e i dialoghi non necessitano di prove attoriali complicate e di alto livello, soprattutto per via dei personaggi che tranne il protagonista non hanno chissà quale caratterizzazione e lasciano poco allo spettatore. Nonostante tutto, i personaggi nel collettivo funzionano comunque e i rapporti sono sufficienti a comprendere le loro azioni. 

Dal punto di vista registico ci sono delle buone trovate (soprattutto nei primi e ultimi minuti di film, ma per il resto non c’è nulla di eccezionale e Frankel non osa assolutamente e a volte ci offre delle scelte registiche non proprio all’altezza del profondo senso dell’opera.

La colonna sonora, dove troviamo “Let’s Hurt Tonight” dei OneRepublic, è molto buona, in alcuni momenti è particolarmente evocante e in generale fa il suo dovere, anche se non è sicuramente qualcosa di incredibile e che rende nettamente migliore il film.

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Collateral Beauty” scorre bene, ci sono vari momenti molto toccanti realizzati bene e che effettivamente emozionano, anche grazie a un’ottima colonna sonora e a delle buone prove attoriali, in particolare di Will Smith. Da notare inoltre la rilevante presenza di concetti filosofici, religiosi e scientifici nel film, basti pensare al teatro dove Whit trova gli attori, chiamato “Hegel Theater” (per chi ha studiato filosofia, il “tutto ciò che è reale è razionale” è un aspetto alquanto importante nell’intera storia). Non riesce però ad essere un film rivelazione per colpa di personaggi (tralasciando Howard) che non lasciano moltissimo, per una regia non molto ispirata e per una sceneggiatura che con qualche svolta prevedibile e che non fa comprendere completamente il senso di ciò che abbiamo visto per buona parte del film e che lo rende sicuramente meno verosimile, anche se non perde di significato e fa comunque riflettere.

Ma il film rimane comunque carico di significato, che è la cosa che conta maggiormente. C’è un profondo messaggio dietro tutta la storia e che con cui dobbiamo fare i conti. Bisogna imparare ad accettare la realtà, a vivere la vita senza prendercela con essa stessa. Il dolore fa parte della vita, va accettato e rispettato. Non possiamo pretendere di vivere senza provarlo, perché se è vero c’è dolore, è vero anche che c’è amore, amicizia, felicità. Il percorso della vita è come un grande domino. Tutto è collegato. Tutto è una bellezza collaterale.

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